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Arctic Security Summit 2025, l’Artico tra deterrenza e diplomazia

©NATO

Reportage di Marco Dordoni, inviato di Osservatorio Artico all’Arctic Security Summit di Copenhagen.

Arctic Security Summit, la sicurezza oltre le apparenze

Il 29 e 30 aprile 2025 si è tenuta a Copenaghen l’edizione annuale dell’Arctic Security Summit, organizzata da Defence iQ. Una conferenza rivolta principalmente a un pubblico di “addetti ai lavori” del settore della difesa provenienti dallo spazio euro-atlantico, che ha affrontato i nodi strategici, operativi e climatici di una regione sempre più cruciale: l’Artico. Un’area resa “calda” non solo dal riscaldamento globale, ma anche dalla crescente rilevanza geopolitica.

Abbiamo seguito i lavori, ascoltato analisi e raccolto testimonianze per provare a mettere ordine nel complesso dibattito sulla sicurezza artica.

Copenaghen, crocevia della partita artica

La scelta di Copenaghen come sede del Summit non è casuale. Sebbene non si trovi entro il Circolo Polare Artico, la capitale danese è tornata al centro delle dinamiche artiche soprattutto per via della Groenlandia, territorio autonomo ma sotto sovranità della Corona danese.

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Veduta aerea di Copenhagen.

A riportarla al centro della scena è stato direttamente il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Durante il suo discorso di insediamento come 47° Presidente, Trump ha menzionato apertamente la Groenlandia – l’isola più grande del mondo, sotto sovranità della Corona danese – come una priorità per la sicurezza nazionale americana. Ha inoltre suggerito la possibilità di acquisirla, anche con “altri mezzi”, non escludendo il ricorso alla forza.

Secondo il Presidente americano, la Danimarca non sarebbe in grado di garantire una difesa militare adeguata alla Groenlandia e, per via della distanza geografica, non riuscirebbe a mantenere scambi e comunicazioni efficienti con l’isola.

Tali dichiarazioni hanno innescato una reazione immediata. A livello operativo, il principale effetto è stato un cambio di rotta negli investimenti danesi in Groenlandia: da interventi focalizzati principalmente sul sostegno economico e infrastrutturale, si è passati a una crescente attenzione verso il rafforzamento della sicurezza e della presenza militare nell’isola.

Questa nuova rivalità interna era tangibile, ma accuratamente celata dietro una facciata di armonia nella Conference Hall che ha ospitato la conferenza. Un primo segnale eloquente: nessun rappresentante danese figurava tra gli speaker. Secondo indizio: tra gli otto relatori statunitensi – perlopiù esponenti delle forze armate o di agenzie strettamente legate al settore difesa – nessun accenno, nemmeno di sfuggita, al dossier Groenlandia. Un silenzio eloquente, che dice più di molte parole.

Voci dal summit

Confrontandomi con relatori e partecipanti al summit, ho potuto capire di più sul “sentimento” che intercorre fra danesi e statunitensi, alla luce di queste recenti tensioni politiche sulla Groenlandia.

Secondo una fonte presente al Summit, “a livello politico queste dichiarazioni hanno tolto fiducia dal lato danese nei confronti dell’alleato americano, ma parlando di operatività nell’Artico, nulla è cambiato: gli Stati Uniti continuano a essere presenti, spesso al fianco dei danesi in esercitazioni e pianificazioni future”. La Groenlandia, insomma, rimane sul tavolo, ma più come leva politica che come obiettivo reale. “Fino ad adesso ho la sensazione che Trump la voglia usare come leva politica”, ha commentato un altro interlocutore.

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©DefenceIQ

Al di là della retorica, il tema artico ha guadagnato terreno nell’opinione pubblica americana. Se un tempo era un tema marginale, oggi è diventato ricorrente, anche grazie alla narrazione strategica veicolata da Washington. “Contrariamente a quanto si pensa, non è tanto la corsa alle risorse a preoccupare: il cittadino medio è più spaventato da ciò che potrebbe arrivare dall’Artico, come un missile lanciato dal Mare di Barents contro infrastrutture civili statunitensi”, ha spiegato un analista.

E in questo contesto, il ruolo della NATO rimane centrale ma non privo di ambiguità. Come ha osservato un relatore: “La NATO è una creazione statunitense e l’Alleanza deve prepararsi a uno scenario di disimpegno americano”. Un disimpegno che però non toccherà l’Artico, almeno non nell’immediato: “La Groenlandia e il nord della Norvegia sono due aree dove gli Stati Uniti non hanno nessuna intenzione di ritirarsi, soprattutto per l’aumento delle attività cinesi”.

NATO, nuovi ingressi e vecchie sfide

Un altro tema caldo toccato durante il summit è stato il ruolo della NATO nell’Artico, soprattutto dopo l’ingresso di Svezia e Finlandia nell’Alleanza. Sebbene il tono generale fosse propositivo, non sono mancati i riferimenti a ostacoli e difficoltà legate al processo di armonizzazione interna.

Da un lato, è stata frequentemente richiamata la narrativa di un’Alleanza non solo più ampia, ma anche più coesa e capace. L’ingresso di Finlandia e Svezia è stato descritto come un valore aggiunto, grazie al loro alto livello tecnologico e alla prontezza operativa, che ha permesso ai due nuovi membri di integrarsi rapidamente e senza attriti, rispettando fin da subito gli standard e le richieste operative dell’Alleanza.

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©NATO

Dall’altro lato, però, è emersa con forza la percezione della minaccia rappresentata dalla Russia, con particolare enfasi sulla sua continua militarizzazione dell’Artico e sugli investimenti in infrastrutture e capacità operative nella regione. Una strategia che si intreccia sempre più con una cooperazione, anche di natura non solo economica, con la Cina, anch’essa determinata a rafforzare la propria proiezione artica.

Questi elementi riflettono le difficoltà concrete che la NATO sta affrontando nel tentativo di affermarsi come attore strategico credibile nella regione artica. La sfida principale resta quella dell’impreparazione strutturale ad operare efficacemente in un teatro complesso come quello artico, dove il “gap” in termini di esperienze e capacità rispetto alla Russia è ancora significativo.

La percezione degli “addetti ai lavori”

Le riflessioni raccolte su questo tema durante le sessioni evidenziano una fase di transizione tutt’altro che semplice.

Per la Svezia, lo “shock più rilevante” non è stato militare, ma psicologico: “forse lo abbiamo sottovalutato”, ha ammesso un rappresentante. Per decenni, Stoccolma ha impostato la propria strategia difensiva su minacce vicine e una cultura operativa focalizzata sul Mar Baltico. Con l’ingresso nell’Alleanza Atlantica, quel paradigma si è ribaltato: ora le priorità non sono più solo nazionali, ma condivise con altri 31 membri.

Questo ha avuto effetti diretti anche sul piano identitario. Pur considerata storicamente una nazione artica, la Svezia ha sempre agito in chiave baltica. Oggi si trova a dover trasferire competenze e risorse in uno scenario operativo del tutto diverso: quello artico, con le sue sfide fisiche, strategiche e logistiche. Un cambiamento che, come è stato detto, “non è un passaggio immediato”.

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Il Segretario Generale della NATO Mark Rutte alla recente conferenza dei Ministri degli Esteri ad Antalya, Turchia. ©NATO

Per la Finlandia, l’ingresso nella NATO è stato invece accompagnato da un forte consenso popolare, rafforzato dalla vicinanza al conflitto ucraino. “Dopo l’Ucraina, siamo noi a sapere meglio cosa significa condividere oltre mille chilometri di confine con la Russia”, ha affermato un funzionario finlandese. Ma anche in questo caso, l’adeguamento operativo è stato profondo: il passaggio da un modello decisionale autonomo a uno multilaterale ha introdotto complessità inedite.

A fronte di queste difficoltà, però, emerge anche un vantaggio concreto: la crescente integrazione industriale e la sinergia nella produzione di armamenti, che sta rafforzando il settore della difesa finlandese. Nessun rimpianto, nemmeno sul piano delle relazioni con la Russia: “Abbiamo preso questa decisione in conseguenza di quello che la Russia ha fatto in Ucraina”, ha dichiarato il rappresentante.

Nuovi attori “Artici”?

Pur non essendo uno Stato artico in senso stretto, il Regno Unito ha dimostrato chiaramente – anche attraverso la sua attiva partecipazione a questa conferenza – la volontà di ritagliarsi un ruolo strategico nella regione, soprattutto nella sua porzione europea. Una presenza che si muove all’interno del quadro NATO, ma che risponde anche a precise esigenze di sicurezza nazionale.

La Gran Bretagna vuole essere un fornitore di capacità e deterrenza, in particolare nei domini dove ha maggiore expertise: il settore sottomarino, quello navale, ma anche l’aereo e quello radaristico, come viene confermato dai rappresentanti britannici.

Abbiamo infrastrutture e know-how che possono potenziare il fianco settentrionale dell’Alleanza, e questo è il momento per farlo”.

Anche la Germania ha colto il segnale e intende rafforzare la sua presenza operativa nell’Artico europeo. Berlino sta puntando in particolare sul partenariato con Oslo, consolidatosi dopo l’accordo bilaterale del 2021. L’obiettivo è quello di potenziare sinergie già operative, soprattutto nella sorveglianza marittima e nella logistica artica.

Lezioni ucraine

Una delle sessioni dell’Arctic Security Summit di Copenhagen è stata dedicata all’analisi delle possibili lezioni apprese dal conflitto in Ucraina che potrebbero risultare applicabili al contesto artico. Il focus si è concentrato, in particolare, sull’evoluzione del metodo di guerra, che in Ucraina si è sempre più spostato verso una dimensione ibrida e tecnologica.

Come sottolineato da diversi relatori, il conflitto in Ucraina ha mostrato come i sistemi d’arma senza pilota, in particolare i droni, stiano sostituendo o integrando mezzi convenzionali in molte operazioni. Tuttavia, è stato evidenziato come l’impiego di tali tecnologie in un ambiente estremo come l’Artico presenti importanti limitazioni: temperature estremamente basse, venti forti e condizioni meteorologiche imprevedibili possono compromettere la funzionalità di droni e altri unmanned vehicles, riducendone l’efficacia operativa.

Un’altra lezione chiave riguarda la capacità russa di sostenere prolungati sforzi bellici. Se da un lato Mosca ha dimostrato una certa resilienza nella produzione e nel ricambio degli armamenti, dall’altro sono emerse significative criticità di natura logistica, soprattutto nella gestione simultanea di più teatri di crisi.

In sintesi, il conflitto ucraino viene visto come un laboratorio di osservazione utile, ma non completamente sovrapponibile: l’Artico richiede adattamenti specifici, tanto in termini tecnologici quanto operativi.

E il cambiamento climatico?

Rispetto ad altri temi affrontati nel corso dell’Arctic Security Summit, il cambiamento climatico ha occupato una posizione marginale nel dibattito. Una frase emblematica sentita durante i lavori lo riassume bene:

“We are warfighters, not green soldiers.”

Tuttavia, nonostante questa impostazione dichiaratamente pragmatica e operativa, il cambiamento climatico è emerso in diversi interventi come fattore trasversale e crescente di insicurezza. Più che come emergenza ambientale globale, è stato trattato come elemento che intacca direttamente la dimensione della sicurezza, con conseguenze concrete nei diversi teatri artici.

Nella porzione nordamericana, in particolare in Canada e Alaska, è stato evidenziato il rischio rappresentato dal disgelo del permafrost, che minaccia infrastrutture civili e militari. Nella parte europea dell’Artico, invece, a preoccupare maggiormente è l’aumento della frequenza e dell’intensità degli eventi climatici estremi.

Il futuro dell’Artico

Nonostante l’incertezza che domina oggi le relazioni internazionali – dall’imprevedibilità della politica estera statunitense sotto Trump, al blocco dei negoziati nei principali teatri di conflitto, fino all’elezione di un nuovo Papa e al rischio latente di nuovi fronti bellici – una certezza sembra emergere chiaramente da questa conferenza: l’Artico è destinato, prima o poi, a trasformarsi in un teatro di confronto militare.

A fronte di questo scenario, il messaggio condiviso tra gli attori presenti è chiaro: occorre prepararsi ora, investendo in armamenti, capacità operative e adattamento strategico, per non farsi trovare impreparati di fronte a una possibile escalation futura nella regione.

Seguendo i lavori della conferenza e confrontandomi direttamente con alcuni dei partecipanti, non ho potuto evitare di pormi alcune domande:

Esiste oggi un interesse concreto ad alimentare un conflitto in questa regione?

E se sì, si tratterebbe davvero di un conflitto convenzionale? Oppure stiamo già assistendo a forme di pressione meno visibili, fatte di provocazioni, attacchi ibridi, competizione informativa e tentativi di indebolire l’ordine internazionale basato sulle regole?

In assenza di un’escalation aperta, chi avrebbe da guadagnare da una crescente percezione di instabilità nell’Artico? E chi, al contrario, sarebbe penalizzato da un deterioramento della fiducia reciproca in un’area che ha finora rappresentato, almeno in parte, un esempio di governance cooperativa?

Domande legittime, che richiedono risposte ponderate. Studiando da tempo le dinamiche geopolitiche dell’Artico, ho imparato che spesso i segnali più rilevanti non sono quelli più visibili, ma quelli che passano in sordina. Non sempre l’aumento della retorica si traduce in un’escalation reale, così come non sempre le minacce percepite riflettono le intenzioni strategiche effettive.

Ciò che mi ha colpito, più di tutto, durante la conferenza, è stato un punto che sembra restare ai margini del dibattito, ma che meriterebbe, a mio avviso, maggiore attenzione:

Un conflitto militare nell’Artico non sarebbe solo rischioso, ma profondamente controproducente per tutti gli attori coinvolti.”

Eppure, mentre ci si interroga su posture, deterrenza e capacità di risposta, emerge con sempre maggiore chiarezza un’altra dimensione della competizione artica – molto meno tangibile, ma decisamente più pervasiva: la trasformazione ambientale in atto.

Il cambiamento climatico, pur essendo una dinamica non militare, ha già effetti strutturali sulla regione. Rende l’Artico più accessibile, più conteso, più vulnerabile. Ridefinisce gli interessi economici e strategici, e pone interrogativi nuovi sulla sicurezza, intesa in senso ampio.

La vera domanda, allora, potrebbe essere: abbiamo davvero gli strumenti adeguati per affrontare sfide che sfuggono alle logiche tradizionali?

Perché se è vero che la sicurezza è (e resterà) una dimensione cruciale per l’Artico, è altrettanto vero che ridurla esclusivamente a una questione di proiezione militare rischia di farci perdere di vista il quadro più ampio.

Marco Dordoni

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Marco Dordoni
the authorMarco Dordoni
Sono Ricercatore presso l'Università per Stranieri di Perugia con un progetto di tesi che si focalizza sulla NATO e la sicurezza in Artico. In passato ho lavorato presso il NATO Centre for Maritime Research and Experimentations di La Spezia. Ho scoperto l'Artico grazie al Master SIOI in "Studi Artici" e da lì l'Artico è diventato la mia vita.

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