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Svalbard, laboratorio del clima che cambia

Tra ghiacciai che scompaiono e paesaggi che si trasformano, le Svalbard sono lo specchio di un Artico che sta cambiando, e ci riguarda tutti.

Clima, la legge che non è uguale per tutti

Il cambiamento climatico è un fatto ormai noto, un fenomeno globale i cui effetti si manifestano sempre più negli eventi atmosferici intensi che, specialmente nei contesti densamente popolati, possono causare vere e proprie catastrofi.

Tuttavia, è nei luoghi più periferici della Terra che il clima si sta riscaldando ai ritmi più incalzanti. E se è comprensibile che un ghiacciaio ritirato faccia meno scalpore di un’alluvione in una metropoli, osservare quanto sta accadendo nell’Artico è fondamentale per comprendere un fenomeno che ci riguarda tutti.

Nell’Artico, i ghiacci sono sempre meno perenni e le acque si scaldano a ritmi inediti. Un epicentro di questi fenomeni sono le isole Svalbard, vero e proprio laboratorio naturale per osservare il cambiamento in azione. A metà strada tra la Norvegia continentale e il Polo Nord, in questo arcipelago si stanno registrando fenomeni rapidi e intensi, ma ben documentati dalla scienza.

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Fonte: Flickr.com

Un riscaldamento che ha già superato i 4-5 °C in pochi decenni, eventi meteo estremi un tempo sconosciuti e paesaggi in piena mutazione. Le Svalbard stanno vivendo un’accelerazione climatica che le proietta in un futuro che molti altri luoghi potrebbero presto condividere. Osservarle oggi significa quindi scrutare nel futuro, più o meno prossimo, dell’intero pianeta.

Temperature in aumento ed eventi estremi

Negli ultimi decenni l’arcipelago artico ha registrato un riscaldamento ben superiore alla media globale: le temperature hanno subito un aumento di circa 4-5 °C rispetto a 40-50 anni fa, uno degli incrementi più marcati al mondo. In altre parole, le Svalbard si sta scaldando fino a 5-7 volte più velocemente del resto del pianeta, emblematico caso di amplificazione artica.

Questo termine descrive il fenomeno per cui la perdita di ghiaccio marino e neve porta a maggiore assorbimento di calore solare (riduzione dell’albedo), innescando un circolo vizioso di ulteriore riscaldamento. I dati confermano che l’Artico nel complesso si sta scaldando 2-3 volte più velocemente della media globale, ma aree come le Svalbard guidano questa tendenza con valori perfino doppi rispetto alla media artica.

Le serie storiche mostrano chiaramente questo cambiamento climatico accelerato. A Longyearbyen, principale centro abitato, la temperatura media annua è aumentata di quasi 1 °C ogni decennio dagli anni ‘90, un ritmo eccezionale. Rispetto ai primi rilevamenti negli anni ‘80, alcuni mesi invernali registrano oggi valori persino 7-8 °C più alti del passato. Il risultato è che stagioni un tempo rigide ora conoscono frequenti episodi di scongelamento.

Ad esempio, l’inverno del 2016 fu talmente mite che il mare attorno alle Svalbard rimase quasi privo di ghiacci, con temperature dell’aria insolitamente sopra lo zero. Ciò provocò precipitazioni abbondanti sotto forma di pioggia anziché neve, un evento senza precedenti per il periodo. Il 7 ottobre 2016 caddero oltre 42 mm di pioggia in un solo giorno (in un mese che dovrebbe essere ben sottozero), saturando il terreno ancora non gelato e innescando frane e colate di fango.

Pochi mesi dopo, nel febbraio 2017, un altro episodio di pioggia e disgelo in pieno inverno causò valanghe di neve fradicia che investirono Longyearbyen, distruggendo diverse abitazioni. Questi eventi estremi – piogge invernali, disgeli improvvisi, valanghe – erano praticamente sconosciuti in passato alle Svalbard, e rappresentano un inquietante “nuovo normale” nel regime climatico locale. La frequenza di tali episodi è in aumento, segnando il passaggio da un clima artico secco e freddo a condizioni più instabili e umide.

Anche le precipitazioni totali sono in crescita. A Longyearbyen, le registrazioni dal 1912 mostrano un trend di incremento pluviometrico di circa +2% per decennio. Con il rialzo termico, sempre più spesso la neve si trasforma in pioggia, soprattutto nelle mezze stagioni. Questo altera il manto nevoso e può creare croste di ghiaccio al suolo quando l’acqua congela nuovamente, un fenomeno dannoso per la fauna e la stabilità del terreno.

Paesaggi in trasformazione

Le alterazioni climatiche sono effettivamente tangibili nel paesaggio fisico delle Svalbard. Uno degli indicatori più evidenti è il permafrost, il suolo perennemente gelato sul quale poggia gran parte del terreno artico. Tradizionalmente, nelle Svalbard il permafrost poteva avere uno spessore di centinaia di metri, con solo uno strato superficiale (“attivo”) che scongelava in estate fino a circa 1 metro di profondità.

Ora, a causa delle temperature più alte, lo strato attivo si sta ispessendo. Il disgelo penetra sempre più in profondità, destabilizzando il terreno. Il suolo, una volta solido come cemento, si trasforma in fango instabile durante la bella stagione. Sulle coste, dove il permafrost fungeva da “collante” per le scogliere, si osservano frane e cedimenti, aggravati anche dall’erosione marina poiché il minor ghiaccio marino invernale lascia le coste esposte alle onde delle tempeste.

I ghiacciai dell’arcipelago, a loro volta, stanno subendo una contrazione generalizzata e accelerata. Oltre la metà della superficie delle Svalbard era coperta da ghiacci perenni, ma questa percentuale è in calo anno dopo anno. Un nuovo studio ha rilevato che ben il 91% dei ghiacciai svalbardiani è in ritirata, con una perdita areale complessiva di oltre 800 km² dal 1985 ad oggi. Il ritiro si è accentuato particolarmente negli anni più recenti, in risposta alle ondate di caldo estremo.

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Immagine satellitare di Nordaustlandet (Svalbard nord-orientali) il 9 agosto 2024. Le calotte di ghiaccio (aree bianche) appaiono punteggiate da zone esposte (azzurro chiaro) dopo intense fusioni estive. Le striature turchesi in mare indicano sedimenti trasportati dal meltwater, segno del deflusso massiccio di acqua di fusione verso l’oceano Fonte: earthobservatory.nasa.gov.

Negli ultimissimi anni, i record di fusione glaciale alle Svalbard sono stati costantemente ritoccati. L’estate 2023 è risultata la più calda mai registrata nell’arcipelago, stando al rapporto Copernicus State of the Climate, con temperature estive di diversi gradi sopra la media e minimo storico di copertura nevosa.

Ma l’estate 2024 ha visto episodi ancora più estremi: a fine luglio 2024 le isole sono state investite da un’anomala “cupola di calore” e le temperature in alcune zone si sono mantenute di 4 °C sopra le medie per giorni. Il 23 luglio 2024 i ghiacciai delle Svalbard hanno perso in 24 ore ben 55 millimetri di acqua equivalente – il quantitativo di fusione giornaliera più alto mai osservato, circa 5 volte superiore al normale. Nel capoluogo Longyearbyen si è toccata una massima di 20,2 °C l’11 agosto 2024, la temperatura più elevata di sempre per il mese di agosto (superando di oltre 2 °C il precedente record mensile).

La fusione dei ghiacci ha conseguenze evidenti. Fiumi glaciali in piena, laghi glaciali che si formano e talvolta cedono di colpo, e un contributo – seppur modesto in termini assoluti – all’innalzamento globale del mare. Si stima che tutti i ghiacciai delle Svalbard contengano ancora circa 7.740 km³ di ghiaccio, il cui scioglimento completo alzerebbe il livello degli oceani di ~1,7 cm.

Ma al di là dei numeri globali, è l’ambiente locale a subire impatti maggiori. l terreno prima coperto da ghiaccio viene esposto e può rilasciare antichi sedimenti e sostanze chimiche intrappolate, alterando i suoli e i corsi d’acqua. Inoltre, vaste aree di paesaggio cambiano volto – dove c’erano ghiacciai perenni ora compaiono rocce nude e morene instabili.

Un gruppo di ricerca internazionale ha parlato di perdita della “memoria” dei ghiacci. Non solo essi arretrano, ma l’intenso scioglimento superficiale sta distruggendo la stratificazione annua degli strati di ghiaccio, cancellando le tracce degli antichi inverni ed estati. Questo significa che diventa più difficile, per la comunità scientifica, ricostruire la storia climatica passata tramite i ghiacci locali. L’Artico sta effettivamente perdendo i suoi “archivi naturali” del clima.

Ecosistemi in bilico

Di fronte a questi grandi cambiamenti, gli ecosistemi delle Svalbard stanno reagendo in modi complessi al riscaldamento globale. Sul terreno, la tundra un tempo brulla sta conoscendo un fenomeno di inverdimento. Le piante stanno espandendo la loro presenza grazie a stagioni di crescita più lunghe e miti. Un recente studio paleoclimatico condotto da scienziati italiani e internazionali ha ricostruito l’evoluzione della vegetazione nelle Svalbard nell’ultimo secolo, trovando una rapida espansione della tundra già dall’inizio del ‘900 in concomitanza con il ritiro dei ghiacci e la riduzione del mare ghiacciato estivo.

Le immagini satellitari moderne confermano che dagli anni ’80 la biomassa vegetale estiva è aumentata in molte zone. Specie di piante erbacee e fiori artici colonizzano ora aree un tempo perennemente gelate, e comunità vegetali più “mature” stanno rimpiazzando i licheni e i muschi. Questo maggiore verde può offrire più cibo estivo agli animali erbivori, ma implica anche cambiamenti nei delicati equilibri del suolo artico, con possibili effetti a catena sull’ecosistema.

Infatti, la fauna terrestre mostra segnali sia di stress sia di adattamento. Il caso emblematico è quello del renna delle Svalbard, una sottospecie endemica ben adattata ai rigidi inverni polari. Con l’aumento delle temperature, gli inverni portano più spesso piogge e poi gelate che incapsulano il suolo in uno strato di ghiaccio, rendendo inaccessibili i licheni e i muschi di cui le renne si nutrono. Questo ha causato in passato morie invernali dovute alla carenza di cibo sotto il ghiaccio.

Eppure, studi recenti indicano che le renne di Svalbard stanno mostrando una certa capacità di adattamento. Approfittando di estati più lunghe e verdi, accumulano maggiori riserve di grasso e ampliano la dieta, ad esempio brucando alghe marine depositate lungo le coste quando la tundra è gelata. Questa flessibilità alimentare ha finora evitato drastici cali della popolazione locale – un contrasto con quanto osservato in altre località artiche, dove diverse popolazioni di renne/caribù sono in declino a causa del clima estremo.

Nei mari attorno alle Svalbard, le trasformazioni sono altrettanto profonde. Il progressivo arretramento della banchisa polare significa che per gran parte dell’anno le acque intorno all’arcipelago restano libere dai ghiacci, situazione impensabile fino a pochi decenni fa. L’assenza di ghiaccio marino in inverno ed estate provoca un “atlantificazione” dell’ecosistema marino: masse d’acqua più calde e di origine atlantica penetrano a nord, innalzando la temperatura del mare.

Ciò ha favorito la migrazione verso queste latitudini di specie marine tipiche dell’Atlantico più a sud, come merluzzi e sgombri, alterando la catena alimentare marina tradizionale. Allo stesso tempo, specie artiche dipendenti dal ghiaccio stanno soffrendo. L’orso polare, animale simbolo dell’Artico, utilizza normalmente il pack come piattaforma di caccia alle foche con una stagione dei ghiacci sempre più breve e distante dalle coste, molti orsi delle Svalbard faticano a trovare prede sufficienti.

Si registrano più avvistamenti di orsi sulle terre emerse in estate, attratti da colonie di uccelli marini o carcasse, comportamenti opportunistici dettati dalla fame e dallo stress. Anche i trichechi e le foche locali vedono modificarsi i loro habitat – ad esempio, i trichechi usano il ghiaccio per riposare tra un’immersione e l’altra, ma ora devono appoggiarsi più spesso a spiagge e coste, con possibili disturbi e competizione per gli spazi.

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Fonte: Flickr.com

La biodiversità marina potrebbe subire impatti a cascata. Alcuni uccelli marini come le piccole auk (Alle alle), che si cibano di plancton freddo presente ai margini della banchisa, rischiano diminuzione di risorse alimentari man mano che le acque si scaldano e il plancton tipico dell’Artico viene sostituito da specie temperate meno nutrienti. Un maggiore influsso di acque atlantiche calde, infatti, può ridurre la disponibilità di crostacei di cui questi uccelli si nutrono, mettendo in pericolo le colonie di nidificazione nelle Svalbard.

Una minaccia “invisibile”

Alle trasformazioni già visibili nel paesaggio e nell’ecosistema delle Svalbard si aggiungono dinamiche meno evidenti, ma potenzialmente molto rilevanti. Tra queste, il rilascio di metano dalle acque sotterranee che emergono nei cosiddetti “forefield”, le aree recentemente liberate dai ghiacci.

Secondo uno studio condotto dall’Università di Tromsø, queste sorgenti possono emettere fino a 2.310 tonnellate di metano ogni anno. Il metano è un gas serra particolarmente potente, che amplifica ulteriormente il riscaldamento in corso. Il metano ha origine nei sedimenti organici intrappolati per milioni di anni sotto i ghiacciai e il permafrost: finché la calotta rimane intatta, rimane sigillato; ma con lo scioglimento, trova una via di fuga verso l’atmosfera.

Si tratta di un esempio concreto di feedback climatico. Ovvero un processo che, una volta avviato, non può essere fermato né invertito. Anche per questo osservare l’Artico oggi significa guardare al futuro del clima globale. E capire che, se vogliamo evitarne gli esiti peggiori, intervenire su ciò che è ancora sotto il nostro controllo è una responsabilità non più rimandabile.

Enrico Peschiera

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Enrico Peschiera
Genovese e genoano, sono laureato in Relazioni Internazionali all'Università di Maastricht. Oggi mi occupo di comunicazione aziendale e scrivo di geopolitica, logistica e portualità.

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