Ultimo capitolo del diario del viaggio-avventura organizzato dal nostro partner FRAMTours a bordo del veliero Linden. Dall’orso bianco all’Orso Rosso: prima di tornare a Longyearbyen, una tappa nella città-miniera di Barentsburg, dove si fondono il passato e il presente della Russia.
Il Re non si vede, ma c’è
Ultimo giorno a bordo del Linden, la meravigliosa nave che in questa settimana è stata la mia casa. Il tempo è grigio, come il mio umore. Balorda nostalgia, già mi assali prima ancora di aver salutato questo capolavoro di legno delle Isole Aland. Mi rincuora, però, realizzare che il bello di un’esperienza del genere è proprio il fatto che resti unica. Meglio lasciare i sentimentalismi da parte, quindi, e godersi quel che resta.

La mattina passa con il binocolo in mano. Insieme a Cristian e alle guide di FRAMTours Matteo, Filippo e David, scrutiamo ogni anfratto delle montagne che cingono il fiordo, speranzosi di avvistare il Re dell’Artico. Non sto parlando di Re Harald V, che pure bazzica anche lui l’arcipelago in questi giorni, ma dell’orso polare. Non è facile, ci avevano avvertito, e in ogni caso la distanza minima da mantenere è di cinquecento metri. Di certo non bisogna sperare di vederlo da vicino. Da queste parti non si scherza sull’argomento: il vero predatore di queste terre è lui, non ha rivali. A differenza dei cugini bruni, ormai avvezzi alla presenza umana e dunque spaventati, l’orso bianco vede l’uomo come una preda. Non ci pensa due volte a partire alla carica, se intravede un potenziale spuntino.
Per questo, in ogni discesa dalla nave, le nostre guide hanno sempre portato una pistola lanciarazzi e un fucile da caccia. La prima, secondo la procedura, per mettere paura all’orso nel caso si stia avvicinando. Il secondo, come extrema ratio qualora il predatore albino abbia effettivamente deciso di attaccare. E badate, non è una leggenda: l’ultimo incontro ravvicinato, avvenuto appena due mesi fa proprio a Pyramiden, ha visto un uomo rischiare la vita per pochi centimetri. Saltando in sella alla motoslitta, per fortuna già accesa, ha evitato di un soffio una fine brutale. Guardare per credere, è tutto documentato in un video.

“Terre brutali per uomini brutali”, così ci hanno detto il primo giorno, riferendosi alla storia delle Svalbard dalla loro scoperta al secolo scorso. Eravamo nel museo di Longyearbyen, dove ti spiegano bene la vita dei cacciatori di balene, di pelli d’orso e di volpe artica, e poi quelle degli sfortunati minatori. In parte, realizzo, è ancora così. Questi posti ti respingono, non sono adatti all’insediamento umano. Insomma, pensateci, qui è giugno e mentre l’Europa va a fuoco il termometro segna quattro gradi di massima. Il sole non tramonterà mai fino a settembre, e poi per altri cinque mesi non sorgerà. Anche dentro i pochi e temerari villaggi, a partire dalla “città” di Longyearbyen, c’è il rischio che spunti un orso polare pronto a mangiarti. Non proprio dei luoghi ospitali, seppur meravigliosi.
Il puntino bianco che speravo di scorgere su uno dei crinali rocciosi o spuntare sopra un ghiacciaio (se è sulla neve, però, lo riconosci perché è un po’ giallognolo, mi dice Cristian) alla fine non appare. Qualche renna mi fa prendere un colpo, ma il Re non si fa vedere. Pazienza, alla fine non m’importa molto. La sua presenza, sin da quando siamo scesi dall’aereo, l’ho percepita eccome.
Nella tana dell’Orso Rosso
Proseguiamo la navigazione verso la nostra ultima tappa. Barentsburg, la città-miniera dei russi, dove ancora si estrae il carbone. L’avevamo già intravista da lontano, durante la nostra navigazione verso nord: già si distinguevano i palazzoni sovietici, ben più imponenti delle case in legno di Longyearbyen. E poi una ciminiera, con il fumo nero che sale lentamente a sporcare quest’aria tersa.

Attracchiamo al porto ed è subito chiaro che questa è tutt’altro che una città fantasma, come la gemella Pyramiden. Passano una ruspa, un pick-up con il logo di Arktikugol, un camion zeppo di carbone. C’è una piccola bandiera rossa che sventola sopra la gru più imponente, aguzzo gli occhi: non mancano la falce e il martello.
Scendiamo dal Linden e cominciamo a salire le scale che dal porticciolo conducono al cuore del villaggio, che si inerpica sulla scogliera. Noto subito un forte contrasto fra alcuni edifici antichi e chiaramente abbandonati, in legno, e i palazzoni di epoca sovietica dalle facciate recentemente ridipinte. Qui la gente vive e lavora, il carbone si estrae e si brucia. Ma il fine, è bene ribadirlo, non è il prezioso combustibile. Non più. La vera ragione per cui i russi mantengono la loro presenza qui è squisitamente politica, proprio come a Pyramiden, che nei fatti non è mai stata davvero abbandonata.


Dopo il crollo sovietico, Barentsburg ha vissuto un progressivo declino, ma Mosca non ha mai smesso di finanziarne la sopravvivenza. Oggi, la miniera è ancora operativa, anche se con margini sempre più ridotti. La Russia ha quindi puntato sul turismo e sulla ricerca scientifica per mantenere la sua presenza attiva, ma la coesistenza pacifica e perfino la cooperazione con i norvegesi hanno subito una brusca battuta d’arresto con l’invasione dell’Ucraina, che ha causato l’interruzione dei rapporti con l’ente del turismo ufficiale norvegese.
Nonostante tutto, noi siamo qui e io ne sono felice, terribilmente affascinato da questo luogo e dalla sua importanza simbolica. Ad accoglierci sul piazzale antistante il Palazzo della cultura dello sport, epicentro del villaggio dai colori che ironicamente ricordano quelli della bandiera ucraina, spuntano un paio di volpi artiche. Da queste parti, gli abitanti gli danno spesso da mangiare, e così il canide dalla proverbiale furbizia ha capito che conviene avvicinare l’uomo. Passeggiano incuriosite, si azzuffano un po’ tra loro, poi spuntano anche due adorabili volpini minuscoli.



Piccola ma affascinante, una chiesa in legno certifica la presenza spirituale del cristianesimo ortodosso, che in questo avamposto estremo della Russia di Putin convive amabilmente con la bandiera rossa. La storia della Madre Russia è profonda, millenaria, e il suo perpetuo presidente ci tiene a sottolineare la completezza che la cultura russa ha assunto sotto la sua guida. Russia Unita, come il suo partito. Dai Variaghi a Putin, dalla croce ortodossa alla bandiera rossa, e oltre. Poco più in là, a scanso di equivoci, campeggia un altro busto di Lenin, il secondo più a nord del mondo.

“Il lavoro del minatore è nella pace umana, nei corpi dei razzi spaziali. Minatore, con la mano laboriosa tu doni a tutti calore e luce!“. Un murale celebra il lavoro di chi, piegato sotto terra, ha permesso all’Unione Sovietica di elevarsi fino allo spazio. Poco più in là, la scuola elementare, decorata anch’essa con pitture raffiguranti bimbi che studiano e orsi polari. Un’accoppiata piuttosto infelice, se posso permettermi.
La nostra visita si conclude all’Orso Rosso, l’unico bar del paese, dove veniamo accolti con estrema gentilezza, un perfetto inglese e una vodka “Barentsburg” davvero piacevole per scaldarmi un po’. Si paga con carta, anche il menù è in inglese, gli arredi sono un piacevole mix di moderno e sovietico, con pezzi di motoslitta e vecchi sci a fare da lampade e bastoni per le tende. Un bar di tutto rispetto, che potrebbe trovarsi nel centro di una capitale europea, non fosse per quell’orso rosso che inequivocabilmente mi ricorda dove sono.


Sono in Russia, anche se non formalmente. Lontano da noi, eppure così vicino, si combatte una guerra sporca, fratricida, che ha eretto dopo ottant’anni di pace in Europa un muro di droni, di morte e distruzione. Impossibile non pensarci, cozzando con l’assurda normalità che questa cittadina cerca di trasmettere: storicamente, qui a Barentsburg hanno convissuto russi e ucraini, molti provenienti dallo stesso Donbass.
Pieno di pensieri contrastanti, forse alimentati anche da quella vodka liscia, risalgo a bordo del Linden. Si torna verso Longyearbyen, il nostro viaggio volge al termine. C’è ancora tempo di osservare l’insediamento minerario di Grumant, dalla barca. Due case diroccate. Spero quasi di vedere l’orso bianco uscire da una di queste, sarebbe la ciliegina sulla torta. Ne esce invece un uomo, giunto lì con il kayak, intento a spostare alcuni massi per ristrutturare un capanno di caccia dove probabilmente vorrà rifugiarsi nei weekend. Sulla schiena, ovviamente, un fucile.
Assurdo. Terre brutali per uomini brutali, terre remote per uomini solitari.
Grazie a FRAMTours
Il racconto del mio viaggio a bordo del Linden si conclude qui. Desidero ringraziare di cuore Cristian Costa, che ci ha invitato a partecipare a questa avventura, regalandomi un’esperienza semplicemente straordinaria, e i suoi collaboratori Filippo, David e Matteo, che mi hanno insegnato un sacco di cose su queste spettacolari isole, di cui sono evidentemente innamorati. E ovviamente grazie a tutta la ciurma del Linden: il fascino di quella nave sarebbe nullo senza le persone che se ne prendono cura.
Andate alle Svalbard, sono luoghi che meritano di essere visti, una volta nella vita. Ma è necessario farlo con chi questi luoghi li conosce, li ammira, li ama. Per me è stato un viaggio indimenticabile, che ha consolidato la mia passione verso questa porzione di mondo così remota, estrema, brutale, ma terribilmente bella e affascinante.

Enrico Peschiera