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Cabina con vista Passaggio a Nord-Est

Erika Fatland racconta la (non) vita nell’Artico russo

Questo articolo riporta una parte della narrazione che la scrittrice e antropologa norvegese Erika Fatland fa del suo viaggio intorno alla Grande Madre Russia.

Guardando il mondo da un oblò

Nel primo capitolo de “La Frontiera. Viaggio intorno alla Russia” (Marsilio, 2019) , intitolato “Estate artica”, Fatland descrive le quattro settimane di permanenza a bordo della nave Akademik Šokalskij, che percorre la rotta del passaggio a Nord-Est, dal porto di Anadyrsk fino a Murmansk.

erika fatland libro

“La vita sulla nave aveva la sua routine e il suo tempo. Nel corso del viaggio avremmo attraversato nove diversi fusi orari e, in corrispondenza del cambio, l’orologio andava spostato indietro di un’ora. A bordo non c’erano né internet né copertura telefonica. Per quattro settimane saremmo stati isolati dal mondo esterno, viaggiando nel nostro piccolo universo privato, un universo che presto aveva acquisito i suoi ritmi e rituali.

A bordo c’erano due sale da pranzo lunghe e strette, e sin dai primi giorni i passeggeri cominciarono a occupare sempre lo stesso posto, a sedersi allo stesso tavolo, insieme alle stesse persone. Colazione alle sette e mezza, pranzo alle dodici e mezza, cena alle sette. A babordo si vedeva la costa orientale della Russia, una striscia di terra bassa e scura, in parte coperta da nebbia grigia; a dritta avevamo il mare aperto e ogni tanto riuscivamo a scorgere una candida striscia di ghiaccio o qualche isola spoglia e brulla”.

Viaggiando verso Ovest

“Se avessimo preso la via più veloce per arrivare a Murmansk, senza deviazioni e senza soste, il viaggio sarebbe durato una, due settimane; il record è di sei giorni e mezzo. Noi, invece, scendevamo a terra ogni volta che era possibile, su isole tempestose battute dal vento e dalle intemperie, dove vivono solo uccelli, lemming e trichechi che sbuffano e grugniscono.

La parola “Artico” deriva dal greco ἀρκτικός, arktikos, che significa “vicino all’Orsa”, in riferimento alla costellazione dell’Orsa Maggiore, visibile solo nell’emisfero settentrionale. Il nome si sarebbe potuto tranquillamente riferire anche ai molto concreti orsi del regno animale.

Su quasi ogni isola dove sbarcavamo era possibile avvistare orsi polari, o almeno vederne le tracce. Per questo ci spostavamo sempre in gruppo; eravamo nel regno degli orsi polari, noi eravamo soltanto ospiti. In un solo giorno ne avvistammo più di duecento, l’un per cento della popolazione della specie su tutta la terra. Da lontano, visti dal ponte della nave, sembravano pecore.

Anche quando ci raccontiamo di non avere alcuna aspettativa perché il luogo è comunque troppo ignoto, perché il viaggio è troppo diverso da ogni altro, inconsapevolmente ci facciamo comunque un’idea di quello che vedremo, delle esperienze che faremo e, non di meno, di quello che non vedremo e delle esperienze che non faremo”.

Rifiuti e ricordi

“Io di certo non mi aspettavo tanta spazzatura. Mai come in Artide ho visto tanti barili di combustibile arrugginiti, migliaia e migliaia di vecchi fusti impilati uno sull’altro o sparsi per la tundra, ricordi tangibili degli ambiziosi progetti russi nelle regioni del nord. Lungo la costa settentrionale della Russia c’erano più di cento stazioni meteorologiche, ciascuna presidiata di norma da tre, quattro persone che vivevano lassù con ogni condizione atmosferica, durante l’estate luminosa così come nei lunghi e bui inverni, spesso per anni. Le prime basi metereologiche artiche furono costruite poco dopo la nascita dell’Unione Sovietica, quando ancora nessuna nave era riuscita ad attraversare il Passaggio a nord-est senza rimanere incagliata nei ghiacci per almeno un inverno.

Non senza ragione il Passaggio a nord-est, o Rotta del mare del Nord come lo chiamano i russi, è considerato uno dei tratti di mare più difficili da percorrere al mondo. Da Murmansk fino allo stretto di Bering corrono più di tremila miglia marine, attraverso cinque mari: il mare di Barents, il mare di Kara, il mare di Laptev, il mare della Siberia orientale, il mare dei Ciukci, tutti parte del mar Glaciale Artico. D’inverno il tratto è coperto da uno spesso strato di ghiaccio, e oltretutto l’acqua è poco profonda: in alcuni punti il fondale è a soli cinque o sei metri di profondità. Nel 1932, dopo molti tentativi, quasi altrettante catastrofi e drammatiche spedizioni di salvataggio, arrivò la svolta. Lo scienziato russo Otto Schmidt riuscì a portare a termine il viaggio da Murmansk fino all’Oceano Pacifico in sole dieci settimane, senza doversi fermare per l’inverno. La fortunata spedizione di Schmidt diede luogo a un ingente impegno sovietico in Artide; Schmidt fu nominato direttore del nuovo ente responsabile per la Rotta del Nord.

arctic garbage

Lungo tutta la costa spuntarono stazioni metereologiche, basi nautiche e avamposti militari; si iniziò a fantasticare sul potenziamento della Rotta del Nord per i trasporti commerciali, sogni che si tradussero in ambiziosi piani quinquennali mai realizzati.

Di quei sogni e ambizioni del passato non resta oggi che qualche casa: in rovina, fatiscente, con libri di Stalin e Lenin sulle mensole e scarpe, seggiole, letti e materiale isolante buttati alla rinfusa davanti alle porte. Qua e là una macchina per scrivere per la stesura dei rapporti. La maggior parte delle stazioni metereologiche fu abbandonata dopo il crollo dell’Unione Sovietica, sostituita oggi da satelliti; in alcune però vive e lavora ancora una manciata di persone”.

Lo sbarco in Nuova Siberia

Dopo una buona settimana per mare sbarcammo sulla Bol’šoj Ljachovskij, l’isola Grande di Ljachovskij, una delle isole della Nuova Siberia.

Accanto alle case abbandonate degli anni Trenta, che nessuno si è preso la briga di demolire, erano state costruite nuove abitazioni per i meteorologi che stavano lì. Quando attraccammo, gli abitanti erano già sulla riva ad aspettarci: tre uomini alti e magri, e una giovane donna dal viso pallido che portava un paio di occhiali tondi. Si chiamava Anja, aveva ventidue anni e viveva sull’isola da cinque mesi.

«La cosa peggiore è la noia» ci disse. «Qui non c’è niente da fare. Non abbiamo internet, niente giornali, c’è solo un televisore… e da queste parti non succede niente.»

Quattro cani da guardia arruffati si nascondevano dietro le sue gambe, lanciandoci sguardi nervosi. Mai in vita loro avevano incontrato così tanti esseri umani in una volta.

«Cosa fate dopo che avete finito di lavorare?» domandai.

Anja scrollò le spalle.

«Guardiamo la tv. D’estate andiamo a pescare. A volte facciamo un giro». Rise brevemente. «Non è che qui ci siano tanti posti dove andare.»

L’isola non era particolarmente grande e ovunque erano sparsi vecchi attrezzi, carcasse di automobili e d’imbarcazioni, oltre agli scheletri di legno delle latrine, di rimesse per le barche e osservatori. Tra i vecchi barili di combustibile arrugginiti ce n’erano di nuovi, di colore blu. Il cerchio non si era ancora chiuso, anzi, continuava nel nuovo millennio.

«Non vi sentiti soli qui?» domandai, rendendomi subito conto di quanto la mia domanda fosse scontata.

«Meno persone vivono nella stazione, più alto è lo stipendio» rispose Anja, scrollando di nuovo le spalle. «D’altra parte se hai appena concluso gli studi è praticamente impossibile trovare un lavoro decente a Novosibirsk.»

Anja aveva da poco terminato la sua formazione di assistente meteorologo, anche se in realtà in precedenza aveva intrapreso un percorso totalmente diverso e studiava economia e marketing. Suo marito, Jurij, era il direttore della stazione e abitava lì già da due anni e mezzo. Alla fine l’attesa era diventata insostenibile e Anja aveva abbandonato gli studi, si era iscritta a un corso accelerato di tre mesi in meteorologia e lo aveva poi raggiunto.

«Il periodo più difficile è l’inverno» raccontò Jurij. Aveva ventotto anni, ma ne dimostrava almeno dieci di più. «È sempre buio, non vediamo mai il sole.»

«E di certo fa anche molto freddo.»

«Meno trentacinque, più o meno. Ma non importa. Anche a Novosibirsk fa freddo.»

«Quanto rimarrete qui?» domandai.

«In teoria possiamo tornare a casa con la rompighiaccio una volta all’anno, in ottobre, ma la compagnia non ha trovato nessuno che ci sostituisca e quindi credo che rimarremo ancora per due anni» rispose Anja.

Sull’altro lato dell’isola, ad alcune ore di navigazione, c’era un’altra stazione meteorologica, inaugurata negli anni Venti e poi dismessa dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Rimanevano ancora le rovine di case piccole e grandi, un trattore cingolato arrugginito e, al solito, bidoni arrugginiti. Accanto alla latrina c’era un preservativo usato e in una delle case trovammo avanzi di pane bianco, un barattolo di crema al cioccolato ricoperta di muffa, un pacco di pasta aperto e anche una raccolta di dvd. Il pane non poteva avere più di qualche settimana.

«Collezionisti di zanne di mammut» spiegò Jevgenij, una delle nostre guide russe.

«Collezionisti di zanne di mammut?» ripetei.

mammuth russia
This was by far the largest and most beautiful mammoth tusk we found during our expedition. It was a lucky find too, it was almost completely buried but fortunately we had our lunch break in the right spot. Foto di Johanna Anjar (www.anjar.nu)

«Sì, le zanne di mammut sono un big business! Quando il clima si riscaldò dopo l’ultima era glaciale, molti mammut cercarono riparo nelle isole della Nuova Siberia. È per questo che qui si trovano zanne ovunque. Ora che il permafrost si scioglie e l’erosione avanza, continuano a emergere nuove aree ricche di zanne. Alcuni cercatori noleggiano elicotteri e imbarcazioni per venire fin qui; si fanno tanti soldi, parliamo di milioni. Probabilmente questo è uno dei luoghi dell’Artico dove più ferve l’attività umana. Ci sono di mezzo grosse somme e quindi, come è ovvio, sono coinvolti anche soldati e guardie di frontiera. I cinesi sono insaziabili!» Jevgenij rise. «Le triturano e le utilizzano come farmaci afrodisiaci».

L’artico della Russia

Questo breve brano evidenzia diverse criticità. Durante l’epoca sovietica, il numero delle stazioni di ricerca (meteorologiche, biologiche, geofisiche, geomagnetiche e idrologiche) in quella zona crebbe a vista d’occhio, passando da 9 a 113. L’inquinamento ambientale che ne conseguì continua tutt’oggi: barili, rottami metallici e resti di carburante intossicano l’ambiente, danneggiandone il precario equilibrio faunistico.

Oggi le stazioni presenti sono 118, di cui 53 operative, mentre le altre sono state chiuse e spesso smantellate solo limitatamente agli strumenti di valore scientifico, ma non certo per ristabilire l’equilibrio naturale dell’area. A seguito di ciò, sono state organizzate alcune campagne per tamponare il problema. La prima tra il 2015 e il 2017, ha visto impiegate unità speciali del Ministero della Difesa, che si sono concentrate negli arcipelaghi di Novaja Zemlja e della Nuova Siberia. Un’altra campagna di pulizia massiva è stata organizzata e completata nel biennio 2017-2019, mentre per il 2021 è stato organizzato un progetto di volontariato incentrato sull’Isola di Vil’kickij (sempre nelle Isole della Nuova Siberia), e sugli insediamenti di Seyakha e di Salemal (Circondario autonomo Jamalo-Nenec).

Un secondo punto critico sono i cacciatori di zanne di mammuth. Questo tipo particolare di bracconaggio è cresciuto esponenzialmente negli ultimi anni, grazie anche allo scioglimento del permafrost che aveva conservato le zanne, e che rende più facile la caccia al tesoro.

Questo materiale è molto richiesto soprattutto dal mercato cinese, verso il quale la Russia esporta l’80% del totale, per circa 60 tonnellate l’anno. La Cina coltiva una tradizione secolare di lavorazione dell’avorio e, dopo il divieto internazionale di commercio di avorio di elefante (1989) e la legge nazionale (2018), la domanda delle zanne di mammut siberiano da parte di questo Paese è cresciuta moltissimo.

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Un chilo di questo materiale viene venduto a 350 dollari, per un totale di circa 21 milioni di dollari all’anno di liquidità immessa nelle casse federali. La legge imporrebbe la licenza ai cacciatori di zanne, ma molti di loro sono ragazzi giovani che si mettono in viaggio affrontando nugoli di zanzare e terreni cedevoli con l’illusione di portare a casa qualche migliaio di dollari, per poi tornare a mani vuote o, ancora peggio, non tornare proprio perché intercettati e arrestati dalla polizia. A ciò si aggiunge che il metodo utilizzato per scavare il terreno alla ricerca di queste ossa è particolarmente invasivo: con dei tubi a pressione simili ad idranti antincendio, si inietta acqua in un substrato di terra già cedevole, rendendola più facile da scavare ma anche maggiormente soggetta a smottamenti e frane.

Queste problematiche sono ferite aperte nel cuore della Siberia ed è importante sensibilizzare l’opinione pubblica su questo tema. Un’area naturale così vasta è difficile da controllare e nasconde sotto le fronde dei suoi alberi i problemi meno evidenti, che non hanno l’eco degli incendi boschivi, ma non per questo sono meno gravi. Per citarne solo alcuni, ricordiamo gli sversamenti di gasolio e prodotti chimici in mare, nei fiumi e nel lago Bajkal, il bracconaggio d’orsi e le fattorie della bile, un trattamento disumano che questi animali subiscono per l’intera durata della loro vita al fine di produrre un altro materiale molto richiesto dal Vicino Asiatico.

Scrittrice e antropologa di origine norvegese, Erika Fatland (Haugesund, 27 agosto 1983) ha studiato presso le università di Copenaghen e Oslo, dove ha conseguito il master in Antropologia sociale. Durante questo percorso ha svolto ricerche sul campo a Beslan, nell’Ossezia del Nord (2007), dove intervistato alcune persone coinvolte nella strage del 2004. Quindi, nel 2008-2009 ha svolto il dottorato presso l’Istituto norvegese di politica estera. Ha ricevuto vari riconoscimenti sul piano nazionale e si è imposta sulla scena culturale internazionale con Sovietistan, che racconta la situazione contemporanea delle repubbliche ex URSS dell’Asia centrale; il libro è stato tradotto in tredici paesi. Oltre ad aver ottenuto diversi premi in Scandinavia, La frontiera è stato candidato al titolo di “Travel book of the year 2020”.

L’Akademik Šokalskijvenne costruita nel 1982 come nave da ricerca oceanografica, specializzata nelle operazioni in climi artici e subartici. Solo secondariamente, venne adibita al ruolo di nave passeggeri per crociere polari. Robusta e agile fra gli iceberg, la Akademik Šokalskij può ospitare fino a 50 passeggeri: i numeri ridotti la rendono esclusiva, motivo per cui i prezzi dei biglietti scendono raramente sotto i 10.000 dollari.

Le zone passeggero non mancano di ogni confort e comprendono una sauna, una biblioteca e una sala conferenze, in cui specialisti sono invitati a spiegare le particolarità dei luoghi visitati. La nave è di proprietà dell’Istituto di ricerca idrometeorologico dell’Estremo Oriente (FERHRI) con sede a Vladivostok, e viene data a noleggio a diverse compagnie turistiche come meta di vacanze. In passato operò sotto l’insegna di Aurora Expedition, mentre attualmente percorre le rotte della Polar Cruises.

Corinna Ramognino

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Corinna Ramognino
Studio lingua, letteratura e storia russa presso l'Università di Genova. Grazie a un background di studi traduttologici e ad alcune esperienze sul territorio ho imparato ad approcciarmi in maniera critica allo studio della cultura russa, che cerco di trasmettere nei miei articoli

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