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Artico, il futuro si decide a Tórshavn

Tórshavn – Una porzione di pianeta ricca di risorse energetiche, oggetto degli interessi economici e politici di cinque Paesi costieri. E di molti altri attori internazionali. Il Polo Nord e la regione artica rappresentano una della maggiori sfide internazionali, presenti e future. Mentre i ghiacci perenni continuano la loro rapida eclisse, in molti si preparano all’esplorazione di un mondo sconosciuto. Durante lo scorso summit internazionale dell’Arctic Circle Assembly, lo scorso 8-9 maggio alle Isole Far Oer, erano presenti ben venti Paesi, con oltre trecento persone, fra delegati, ministri e ricercatori, per fare il punto della situazione.

Se Elon Musk vuole portare l’uomo su Marte nel giro di pochi anni, ecco che si apre una partita mondiale di tutto rispetto nell’Artico. Russia, Stati Uniti, Danimarca, Norvegia e Canada sono i cinque Paesi costieri della regione. Ognuno con le proprie rivendicazioni territoriali, ognuno con la propria strategia. «L’obiettivo principale di quest’area», sottolinea Paoul Michelsen, Ministro degli Affari Esteri delle Isole Far Oer, «è quello di sviluppare le sue potenzialità economiche. Nell’arco di due ore di aereo arriviamo comodamente in tutta l’Europa continentale, ma dobbiamo essere consapevoli del fatto che qui si decide anche il futuro ambientale del pianeta».

Che la colpa sia dell’uomo e dell’inquinamento industriale, o di un ciclo storico più caldo, poco importa. Il dato è che il ghiaccio dell’Artico si scioglie, a ritmi molto più veloci rispetto ad altre zone del mondo. Entro una decina di anni si ritiene che buona parte della regione sarà completamente priva di ghiaccio, almeno in estate. Un disastro ambientale di portate non quantificabili, ma anche un’opportunità grandiosa per le nazioni che si affacciano sull’area. E non solo. Un punto di vista non secondario in consessi come quello di Tórshavn. Qui le parole d’ordine sono “collaborazione” e “cooperazione”, ma aleggiano pesanti anche i timori dei grandi investimenti e di una possibile militarizzazione della regione. «Da un punto di vista economico, l’area è estremamente favorevole per lo sviluppo».

A dirlo non è il CEO di una multinazionale energetica, ma Sigurður Ingi Jóhannsson, ex Primo Ministro islandese e attuale Ministro dei Trasporti. «Lo sviluppo economico non cresce in maniera automatica, ma va coltivato a tutti i livelli. Dalla portualità ai piccoli centri, supportando l’iniziativa privata e la connessione tra i settori». Qui il fattore ambientale non è certamente uno scrupolo di chi è più sensibile al tema, ma un aspetto cruciale della questione. Eppure «non c’è contraddizione nel supportare la crescita del lavoro e credere che possa essere solida solo con un’ottica ambientale», ribadisce Jóhannsson.

Il Dragone artico

Ospite sicuramente scomodo ma molto presente è quella Cina di Xi Jinping che, a suon di miliardi, si prefigge l’obiettivo di essere cruciale per lo sviluppo mondiale. E’ di pochi mesi fa la prima, vera mossa di Pechino nella regione. Un investimento da oltre 600 milioni di dollari per la costruzione di un nuovo aeroporto in Groenlandia, che avrebbe potuto sostenere e sviluppare enormemente la misera economia di Nuuk. Un interesse su cui però arriva lo stop congiunto di Copenhagen e Washington. «Eppure per noi si tratta semplicemente di un investimento», assicura a The Meditelegraph Gao Feng, Rappresentante Speciale per gli Affari Artici della Repubblica Popolare Cinese. «La Cina non ha nessuna intenzione di creare problemi, però è chiaro che la nostra volontà sia quella di investire nella regione, soprattutto andando a sviluppare porti e infrastrutture per far crescere anche il turismo».

La visione di Pechino cozza duramente con le molte dichiarazioni pacifiche del summit. La cooperazione e il lavoro congiunto delle diplomazie rischia di andare a infrangersi contro la moneta sonante, perché è chiaro che le mire della capitale cinese non possono fermarsi al sogno chiamato “Northern Sea Route”. La nuova rotta commerciale che potrebbe aprirsi delle coste russe segue inevitabilmente l’evoluzione delle condizioni climatiche dell’area, ma è ancora troppo presto per dire se questa opportunità si creerà davvero, o se rimarrà una suggestione per gli studiosi. Ecco perché Pechino segue anche un’altra strategia, che ricorda molto l’espansione mercantile di nazioni o città come il Portogallo del 1600, o la Genova del Quattrocento. Quando – anziché occupare manu militari zone nemiche – si preferiva creare ad hoc una stazione commerciale, magari protetta da truppe; o, ancora meglio, investire in un piccolo fondaco, lontano migliaia di chilometri dalla madrepatria, ma in cui poter sviluppare una rete di contatti e di finanziamenti diretti. E cimentando così la presenza nazionale in luoghi remoti.

«Per la Cina si tratta semplicemente di questo: investire». Nonostante le assicurazioni del Rappresentante Speciale cinese, la reazione congiunta di Stati Uniti e Danimarca a questo primo banco di prova racconta un’altra storia. Washington non avrebbe certamente nessun interesse ad avere un inquilino così fastidioso a pochi chilometri dalla sua prima base militare, in Groenlandia, nuovamente finanziata pochi anni fa. La Thule Air Base rappresenta il punto più settentrionale delle installazioni militari americane nel mondo, e qui lavorano circa 600 elementi degli eserciti di Washington e Copenhagen. E proprio quest’ultima non può permettersi di far insediare uno sponsor così imponente come la Cina nella sua recalcitrante Groenlandia, che sogna l’indipendenza da molti decenni, e che potrebbe facilmente fare affidamento su questo tipo di iniezione di denaro estero per arrivare al proprio obiettivo. «Non abbiamo sorprese nel cassetto per gli Stati dell’area», prosegue Gao Feng.

«La Cina punta a creare un grande piano di connettività, e le azioni che vogliamo intraprendere nell’Artico vanno lette nel contesto della Chinese Arctic Policy pubblicata lo scorso gennaio e nella cornice della più ampia questione Belt and Road Initiative (BRI, nome con cui ci si riferisce alle “nuove vie della seta” n.d.r.). Non vogliamo forzare la mano a nessuno. Quando vediamo un’opportunità economica e di crescita, proponiamo un piano e un progetto, come si fa in qualsiasi contesto commerciale. Se viene accettato, si parte. Altrimenti non se ne fa nulla». Certo è che se le rotte del Sud stanno creando qualche malumore, ma anche un flusso di investimenti senza precedenti, la parte Nord del piano BRI appare sfocata e complessa. Un aspetto dovuto anche alla mancanza di chiarezza globale sull’area, dove tutti i Paesi costieri rivendicano territori sempre più ampi, e dove manca un organo di controllo generale.

Solo l’ONU cerca di dare un ordinamento. L’unica legge che regola questa porzione di pianeta è sempre quella UNCLOS del 1982, a cui fanno riferimento gli Stati marittimi. Una base giuridica comunque insufficiente. Nel 2017 il Parlamento italiano pubblicava un documento, a firma del Centro Studi Internazionali, in cui si ribadiva proprio questo punto: «La prevalenza di una delle due posizioni dipende dall’applicazione delle norme della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (United Nations Convention on the Law of the Sea, UNCLOS), entrata in vigore nel 1994. Tale trattato internazionale definisce i diritti e le responsabilità degli Stati nell’utilizzo dei mari e degli oceani, esplicitando le linee guida che regolano le trattative tra i governi, la salvaguardia dell’ambiente e la gestione delle risorse naturali. Nello specifico, l’UNCLOS stabilisce alcune categorie giuridiche fondamentali per sancire l’effettività e il livello di sovranità degli Stati rivieraschi».

Edimburgo punta a Nord

Cina, Corea, Singapore. Solo solo alcuni dei Paesi non-artici che nonostante la geografia puntano forte sull’evoluzione dell’area. Ma non solo. Tra i pretendenti a entrare nel privatissimo club polare, anche la Scozia. Dopo aver ospitato un summit specifico lo scorso novembre, i Ministri scozzesi hanno deciso di investire ancora di più nel soft power. A Tórshavn, infatti, erano presenti molti fra delegati, politici e studiosi scozzesi, tutti pronti a promuovere un’unità d’intenti che esprime tutte le preoccupazioni per il prosieguo delle trattative sulla Brexit.

A sottolineare questo aspetto è Alasdair Allan, Ministro per lo Sviluppo Economico di Edimburgo: «La Scozia ha fatto parte della lega del Nord per secoli, vicini per cultura, lingua, usi e costumi, e così collaboriamo insieme per lo sviluppo dell’area. Dallo scioglimento dei ghiacci all’innalzamento del livello del mare, la questione ambientale ci colpisce già direttamente, considerando la costa settentrionale del Paese e anche le Isole Shetland». E prosegue: «Siamo determinati a giudicare il mondo verso nuovi livelli di innovazione e come esempio ambientale, e ci candidiamo a essere sempre più integrati nel discorso artico. Non è una semplice questione economica, ma parliamo anche di sostenibilità, supporto e occupazione delle giovani generazioni, preservazione delle culture locali e molto altro».

Continua Allan: «La nostra strategia è anche quella di diventare più rilevanti nell’area. Il 62% delle persone in Scozia hanno votato per restare all’interno dell’Unione Europea, ma stiamo affrontando la Brexit e dobbiamo guardare a nuove opportunità dell’area». Se il petrolio del Nord Europa non ha poi un valore tale da consentire all’Unione Europea di sottrarsi dall’orbita dei Paesi del Golfo, Edimburgo cerca in tutti i modi di accreditarsi come Paese artico. Prima di tutto da un punto di vista culturale, e poi – un domani – anche con investimenti diretti sul turismo e sulla pesca. Volessimo riassumere

brevemente la strategia di queste nazioni, potremmo dire che “si fa di necessità, virtù”. Perché le condizioni climatiche e ambientali stanno diventando disastrose e insostenibili, e la rapidità con cui si sciolgono i ghiacci artici non mette in discussione solamente le coste, ma l’intera catena alimentare del pianeta. Un cataclisma ecologico, che è un tema relativo a queste latitudini. Più si scioglieranno i ghiacci perenni, di acqua dolce, più il clima potrebbe cambiare, con esiti imprevedibili. Eppure, il cambiamento rappresenta anche occasioni dorate per chi saprà approfittarne. La Russia fa da padrone di casa in quest’ambito, avendo oltre 24.000 chilometri di costa all’interno del Circolo Polare Artico, e due milioni di abitanti già presenti nell’area. Il ruolo di Mosca è cruciale come non mai, perché poco al largo della sua fascia costiera potrebbero passare tra pochi anni centinaia di cargo sulla rotta Asia-Europa.

E anche perché, nonostante le rassicurazioni ambientali e politiche, la Russia ha già la possibilità di estrarre LNG a costi molto ridotti, grazie alle basse temperature regionali. Più saranno disponibili le aree di trivellazione e di esplorazione, maggiori potrebbero essere gli investimenti per la ricerca di gas naturale, innescando così un circolo assai redditizio. Lo scorso 1 gennaio 2017 era entrato in vigore il “Polar Code”, un nuovo codice internazionale per la navigazione adottato dall’IMO per le navi che operano ai Poli. Una base normativa importante, che va proteggere gli scafi, i marittimi e i passeggeri, oltre che l’ambiente artico, ma che dovrà essere necessariamente rivisto entro pochi anni. Nel 2025, infatti, Mosca prevede che il transito merci oltre le sue coste raggiungerà la quota di 45 milioni di tonnellate annue, a fronte delle 10 milioni di tonnellate già trasportate nel corso degli ultimi anni. La deserta landa ghiacciata interesse non poco anche l’Unione Europea, che ha al suo interno – la Danimarca – un Paese costiero. Bruxelles ripete da anni, a suon di documenti ufficiali, che lo sforzo comune deve avere un orizzonte di cooperazione, pace regionale e sviluppo economico. Tuttavia, sarà arduo per 28 Stati membri avere una voce unica in questo capitolo, con nazioni che possono trarre enormi benefici economici, come la Germania e gli stessi Paesi del Nord, a fronte di chi ritiene estremamente inopportuno lasciare alla Russia ampi spazi di manovra, come il Gruppo di Visegrad.

Nel frattempo, c’è chi non sta con le mani in mano. L’Autorità Portuale del Maine è riuscita a portare a un mostruoso +1300% la crescita delle spedizioni container dal 2011, e questo grazie soprattutto alla decisione di rivedere completamente la sua strategia complessiva. Nel 2008 erano iniziati i lavori per il ripristino delle banchine e del retroporto, e oggi Portland festeggia l’esistenza di una rotta consolidata da e per l’Islanda, essendo diventata il terminal di riferimento degli Stati Uniti verso l’economia di Reykjavík. Risultati ottenuti con uno spirito senz’altro audace, ma che potrebbe essere replicato in molti altri porti, anche europei. La corsa all’Artico è ufficialmente iniziata.

Leonardo Parigi © Tutti i diritti riservati

Leonardo Parigi
the authorLeonardo Parigi
Sono Laureato in Scienze Politiche Internazionali all’Università di Genova e di Pavia. Sono giornalista pubblicista, e collaboro con testate nazionali sui temi di logistica, trasporti, portualità e politica internazionale.

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