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Tamburi tra i ghiacci: il risveglio culturale della Groenlandia

Foto: Annie Spratt

Tra memoria e autodeterminazione, la rinascita culturale della Groenlandia passa anche attraverso la riscoperta dei suoni ancestrali inuit.

Groenlandesi, svegliatevi! Ci guardano dall’alto.”

L’isola più grande del mondo è da tempo al centro di interessi geopolitici, strategici ed economici.

Ciò che spesso sfugge nella visione globale è la sua dimensione, non tanto geografica, ma intima e profonda: quella della cultura inuit, sopravvissuta a secoli di colonizzazione e che oggi si dimostra più viva che mai. La storia della Groenlandia è fatta di silenzi imposti e voci ritrovate, dove la musica è diventata nel corso del tempo uno strumento di memoria, resistenza e autodeterminazione.

L’Artico che canta

Tendenzialmente, l’immaginario collettivo associa l’Artico a ghiacciai, orsi polari e dispute territoriali; quello che spesso viene messo in secondo piano è la dimensione umana e culturale delle popolazioni che abitano in queste latitudini estreme.

Nonostante ciò, in Groenlandia, la musica è oggi il cuore pulsante di una rinascita identitaria. Negli ultimi anni, infatti, artisti groenlandesi stanno riscoprendo e rilanciando forme musicali tradizionali come i canti gutturali (katajjaq) e le danze con il tamburo (qilaat), spesso unite a linguaggi contemporanei quali il rap, il rock o il pop. Al di là dell’aspetto artistico, la fusione tra tradizione e contemporaneità assume un significato culturale e politico, diventando un vero e proprio strumento per rielaborare l’identità collettiva e rafforzare il senso di appartenenza.

groenlandia inuit
Inuit danzano nei dintorni di Nome, 1900.

Le ferite del colonialismo danese

Per comprendere a pieno il valore politico e simbolico della musica inuit oggi, bisogna fare prima un passo indietro. L’arrivo dei missionari danesi e moravi nel XVIII secolo ha segnato l’inizio di una profonda repressione culturale. Le autorità religiose cristiane vedevano nelle pratiche musicali tradizionali, come le danze cerimoniali e i duelli canori, elementi di “paganesimo” da estirpare sul nascere.

Hans Egede, considerato il “padre della colonizzazione” groenlandese, avviò un processo di cristianizzazione che impose nuovi riti religiosi al posto delle celebrazioni comunitarie inuit.

I tamburi cerimoniali vennero confiscati o, peggio, distrutti, mentre nelle scuole missionarie si insegnava il canto corale secondo la tradizione europea, lasciando che la cultura inuit scomparisse progressivamente nel tempo.

Voci ritrovate, tra protesta e orgoglio

Oggi, questo muro di silenzio imposto sta cedendo a una nuova ondata di creatività. Artisti come Rasmus Lyberth e Julie Berthelsen hanno riportato al centro della scena musicale groenlandese sonorità e testi che celebrano e ricordano la vera cultura inuit, portando con sé messaggi di resistenza. Durante un concerto a Skive, in Danimarca, Lyberth ha dichiarato: “In che mondo vive Donald Trump? Dovrebbe vergognarsi!” riferendosi in modo implicito alle mire espansionistiche del Presidente americano.

Ma è soprattutto tra le nuove generazioni che si avverte un cambiamento ancora più radicale. Uno dei nomi più significativi è Tarrak, pseudonimo di Josef Tarrak-Petrussen, giovane rapper di Nuuk. La sua musica, in kalaallisut1, mescola beat urbani e denuncia sociale. Brani come Tupilak raccontano le ferite della società groenlandese: discriminazione, suicidi e senso di marginalizzazione. Nel videoclip del brano, Tarrak rappa ai piedi della statua di Egede, urlando: “Groenlandesi, svegliatevi! Ci guardano dall’alto.” Un gesto potente, che ha scosso l’opinione pubblica danese e ha dato voce a una generazione decisa a non accettare più i pregiudizi storici.

groenlandia youtube
Tarrak – Tupilak (Youtube)

La musica come strumento politico

Il recupero della musica tradizionale non è un fenomeno isolato o puramente folklorico. È parte di un processo più ampio di rivendicazione identitaria che attraversa anche la politica groenlandese. La richiesta di maggiore autonomia (e, per alcuni, l’indipendenza completa dalla Danimarca) passa anche attraverso la riscoperta della lingua, dei simboli e dei riti ancestrali.

Da questo punto di vista, la musica agisce su due livelli: terapia collettiva e manifesto politico. Le parole, i suoni e persino i tatuaggi facciali in stile tradizionale (un tempo vietati dal clero) diventano strumenti per riprendersi quell’identità perduta. Come ha dichiarato lo stesso Tarrak, “con i tatuaggi mi sono ripreso la mia identità. Volevo essere un Inuk orgoglioso.”

È proprio nel risveglio musicale e culturale dove si intrecciano le tensioni tipiche dell’Artico contemporaneo: la difesa dell’ambiente, la pressione internazionale sulle risorse naturali e le ambiguità delle relazioni post-coloniali. La Groenlandia non è più (solo) una terra silenziosa e remota: è un attore che sta rivendicando la propria voce.

La rinascita musicale raccontata dagli artisti inuit si inserisce così in un panorama più ampio, dove la cultura diventa leva di autodeterminazione. In un mondo che tende a omologare e a globalizzare, l’Artico risponde con il recupero delle proprie specificità, senza nostalgia, ma con fierezza e visione.

La musica, un tempo silenziata, oggi risuona come un tamburo che batte il ritmo di una nuova era. In Groenlandia, ogni nota è un passo verso la riconquista dell’identità e ogni canto un’affermazione di autonomia. Il risveglio culturale non è solo un ritorno alle radici, ma una dichiarazione di esistenza e di futuro.

Isabella Basile

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Isabella Basile
the authorIsabella Basile
Laureata in Scienze Internazionali e Diplomatiche presso l’Università degli Studi di Genova, sto proseguendo i miei studi con una magistrale in Security and International Relations. La mia tesi triennale era incentrata sulla “Corsa all’Artico”, un tema che continua ad affascinarmi e coinvolgermi profondamente.

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