Shipping

Il mare domani

Cosa e come può cambiare il mondo del trasporto in ottica artica

Quale sarà il futuro delle acque del Mar Glaciale Artico? Lo shipping sarà davvero protagonista? Intervista a Sergio Bologna.

Il futuro dello Shipping nell’Artico

Della Northern Sea Route e dei porti artici esiste ormai una specie di “letteratura” sul tema. I numeri spesso divergono, tra immani spese ipotizzate dai governi e l’applicazione pratica. Ovvie difficoltà meteorologiche, preoccupazioni legate all’ambiente e alla quasi impossibile copertura assicurativa, sono tre ragioni semplici per cui il mondo del trasporto globale non ha ancora puntato così tanto sulla rotta artica.

Ma quanto davvero conta la geopolitica, se messa a confronto con la pura economia? Per fare un po’ di chiarezza, abbiamo girato la domanda a Sergio Bologna, Presidente AIOM (Agenzia Imprenditoriale Operatori Marittimi) di Trieste, nonché uno dei maggiori conoscitori italiani del mondo del trasporto globale.

sergio bologna

Lo scioglimento dei ghiacci artici potrebbe aprire effettive nuove rotte marittime commerciali. Ma questa eventualità – che dipende non soltanto dallo shipping e dai costi del trasporto – potrà dirsi reale secondo Lei, stando alle evoluzioni attuali dell’economia dei trasporti?

«Non credo che sia un problema di economia dei trasporti. È un problema geopolitico l’utilizzo o meno della rotta artica, oltre che un problema di sostenibilità ambientale. Mi fa piacere comunque che un grande operatore dello shipping si sia dimostrato sensibile alla tematica ambientale. Faceva venire la pelle d’oca vedere tanta gente discettare sulla rotta artica segretamente compiacendosi dello scioglimento dei ghiacci».

Nel libro “Le multinazionali del mare” si trova la più recente crono-storia dell’evoluzione del gigantismo navale. Quale pensa che sia il futuro della cantieristica navale? Saranno la robotica e l’automazione a governare il futuro del settore?

«Quel libro in realtà avrebbe bisogno di un grosso lavoro di attualizzazione. In dieci anni sono cambiate moltissime cose. Ci sto pensando. E uno dei temi che richiederebbe un update è proprio quello della finanza navale, tema di cui mi sono occupato dopo che il libro era uscito. Ne ho trattato in “Banche e crisi. Dal petrolio al container”, uscito nel 2013, dove analizzavo il crack del sistema tedesco, il cosiddetto KG System, che ha portato al fallimento di centinaia di fondi d’investimento e all’indebolimento di quella che è stata una delle maggiori piazze finanziarie dello shipping: Amburgo.

Ne hanno fatto le spese anche i cosiddetti non-operating owner NOO, gli investitori che costruivano le navi non per gestirle ma per noleggiarle. Ne hanno fatto le spese la finanza occidentale e le sue grandi banche commerciali. Oggi il pallino è nelle mani delle società di leasing del Far East. Cinesi, giapponesi, sudcoreane, cioè, guarda caso, dei Paesi con la cantieristica più forte».

Tecnologia, ambiente e nuove infrastrutture

La transizione ecologica, i nuovi carburanti e l’aumento della tecnologia a bordo (e a terra): quanto questi tre fattori incideranno sullo shipping del prossimo decennio, e come?

Questo mercato è soggetto a profondi cambiamenti, come ho cercato di sottolineare negli ultimi due numeri della “Newsletter AIOM” di maggio e di giugno. Le navi diventano tecnologicamente sempre più sofisticate, la componentistica acquista un valore sempre più alto, il contributo del cantiere navale al valore della nave si riduce proporzionalmente sempre più.

La transizione energetica sta mobilitando masse enormi di capitale. Ma il movimento dei capitali ed in particolare l’erogazione dei crediti allo shipping saranno sempre più condizionati da quelli che vengono chiamati ESG principles. Chi rispetterà determinati parametri di carattere ambientale, sociale e di governance, chi avrà maggiore trasparenza, potrà godere di crediti a migliori condizioni. Mi auguro che questo avvenga veramente e che non si traduca invece nel solito teatrino delle marionette, come il cosiddetto “rispetto della privacy”».

In tutta la regione artica si sviluppano progetti di infrastrutture quali nuovi porti, aeroporti, ferrovie. La logistica e il trasporto sono da considerare, secondo Lei, modelli storicamente inequivocabili di “sviluppo economico” dei territori, o possono essere solo punti di approdo delle merci, senza per questo determinare un cambiamento reale del luogo?

«Per loro natura, logistica e trasporto non hanno confini fisici, ma solo confini economici, come tutte le azioni imprenditoriali che puntano al profitto. Può accadere però che eventi eccezionali, come la pandemia, finiscano per assegnare alla logistica una specie di ruolo per la collettività, un ruolo “sociale”. L’importante è che non ne approfittino troppo. Ma non so se questo è il caso delle compagnie di navigazione che, proprio nel periodo della pandemia, hanno alzato i noli a livelli prima impensabili. Ecco, mi piacerebbe sapere come si concilia con gli ESG principles un comportamento del genere».

Da Sud a Nord?

Nei giorni immediatamente successivi all’incidente di Suez, si è detto che porti italiani come Genova e Trieste potrebbero/dovrebbero ragionare anche in funzione di eventuali cambi di scenario (eventuale blocco di choke points della rotta Sud, ad esempio). Lei pensa che un sistema portuale potrebbe/dovrebbe modulare i propri investimenti infrastrutturali anche in funzione di tali possibilità, o che debba proseguire su una base di ragionamento quale il mercato oggi esistente?

«Io penso che la prima cosa alla quale un’amministrazione portuale dovrebbe pensare è la valorizzazione delle risorse umane, sia in termini di qualificazione che in termini di salario e di condizioni di lavoro. Non vedo per esempio per quale ragione dovrebbe essere più importante occuparsi di smart-working che di sicurezza di chi effettua il rizzaggio dei container a bordo e che non potrà mai lavorare in remoto.

Quanto alle infrastrutture, ai cambiamenti nelle trade lanes, agli spostamenti nelle correnti di traffico, non abbiamo ancora capito che i porti – dall’ingresso sul mercato del container in poi – non hanno nessun potere di decisione? Un porto deve far funzionar bene la sua macchina, punto. Al resto ci pensano i suoi utilizzatori».

transpolar sea route
Fonte: Maritime Executive

Leonardo Parigi

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Leonardo Parigi
the authorLeonardo Parigi
Sono Laureato in Scienze Politiche Internazionali all’Università di Genova e di Pavia. Sono giornalista pubblicista, e collaboro con testate nazionali sui temi di logistica, trasporti, portualità e politica internazionale.

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