Tra pressioni geopolitiche e nuove opportunità economiche, l’Islanda torna a interrogarsi sul proprio futuro europeo.
Un dibattito annoso
Essere o non essere? M’ama o non m’ama? Entrare nell’UE o non entrare? Da qualche mese un dibattito si è radicato nella società islandese, un argomento che torna ciclicamente ma che non ha mai trovato né capo né coda: si tratta della possibilità di aderire all’Unione Europea.
Il Governo, da poco insediatosi alla guida del Paese, ha inserito nel proprio programma l’organizzazione di un referendum per decidere a riguardo. Nonostante il tema non sia nuovo all’opinione pubblica, la promessa di indire un voto ha ridato concretezza a una questione molto sentita, specialmente dopo i cambiamenti degli ultimi anni.

Il nuovo governo di centrosinistra, tuttavia, prevede non solo di portare il quesito alle urne, ma anche di istituire una commissione di esperti indipendenti che si occupi di analizzare gli effetti di un’adesione al club dei ventisette, in particolare sulla corona islandese o in caso di un cambio di valuta, passando all’euro.
L’esecutivo, salito al potere a dicembre dello scorso anno, è formato da una coalizione di tre diversi partiti ed è il risultato di elezioni anticipate. Ora a Reykjavik governano il Partito socialdemocratico, il Partito riformista e il Partito del Popolo: a capo di queste forze vi è la trentaseienne Kristrún Frostadóttir.
La proposta di indire un referendum sull’adesione all’UE è stata portata avanti dai Riformisti, mentre Socialdemocratici e Popolari hanno scelto di adottare un approccio più moderato. In ogni caso, rispetto a quando il tema venne posto per l’ultima volta, il 54% degli islandesi oggi è favorevole a entrare nell’Unione, contro il 25% di dieci anni fa, mentre il 74% ritiene giusto affrontare la questione direttamente alle urne. Reykjavik, in aggiunta, non è affatto nuova a questa possibilità e sa già come si evolverebbero dei possibili negoziati.
I precedenti
L’Islanda, infatti, fece già domanda nel 2009, quando la crisi economica dell’anno precedente causò il tracollo della moneta nazionale e una gravissima recessione. Dopo essere stati ammessi ai negoziati, nel 2013 le trattative portarono al raggiungimento di un accordo su circa un terzo dei punti. Il governo riteneva che adottare l’euro e accedere al mercato unico avrebbe favorito una rapida ripresa dalla crisi che aveva travolto il Paese.

La battuta di arresto arrivò poco dopo quando, alle elezioni dello stesso anno, arrivarono al governo due partiti conservatori ed euroscettici. Nel 2015 arrivò la comunicazione ufficiale che l’Islanda aveva rinunciato alla domanda di adesione, non godendo più dello status di Paese candidato. In ogni caso, l’isola è già ampiamente integrata nel tessuto economico europeo, facendo parte dell’area Schengen, dell’Associazione europea di libero scambio e dell’accordo di Dublino sull’accoglienza delle richieste di asilo. Nonostante i tempi record con cui si svolsero le fasi dei negoziati, oggi come allora ci sarebbero dei punti da chiarire.
I nodi da risolvere
All’epoca delle prime trattative, un tasto dolente fra le due parti era quello sulla pesca, uno dei settori più importanti per l’economia nazionale. Il Paese, infatti, era reticente a sottostare alle regolamentazioni di Bruxelles, tra cui il sistema delle quote, e non è detto che oggi un compromesso sia più semplice. Attualmente, vi è un altro punto che potrebbe causare attrito fra islandesi ed europei: l’immigrazione. In questa tornata elettorale se ne è parlato molto più del solito: il numero di stranieri presenti sull’isola, infatti, è aumentato sensibilmente e, in caso di adesione all’UE, gli abitanti vogliono conoscere le possibili implicazioni.
I punti a favore dell’ingresso in Europa, d’altra parte, sono sempre quelli riguardanti il lato economico; in particolare la volatilità della moneta e il costo della vita. Nel 2023 il tasso di inflazione aveva superato il 10% e, nonostante ora sia poco sotto il 5%, molti pensano che entrare nell’UE possa aiutare il Paese, favorendo il commercio e nuove opportunità di crescita economica. Allo stesso modo, l’adozione dell’euro eliminerebbe il problema dell’instabilità della valuta nazionale e ne affiderebbe il controllo a un organismo centrale quale la BCE.
Ciò nonostante, non si tratta più solo di economia: negli ultimi dieci anni, infatti, qualcosa è cambiato e anche l’Islanda comincia a sentire i mutamenti in corso nello scenario globale.
Il fattore geopolitico
Come dichiarato dalla nuova prima ministra, i mutamenti del contesto geopolitico, dalla guerra in Ucraina a quella commerciale di Trump, influenzeranno i piani islandesi di indire un nuovo referendum entro il 2027, su cui servirà una discussione equilibrata.
“Prima del 2027 vogliamo vedere se la nazione vuole riaprire questi negoziati (di adesione). E sono sicura che l’attuale situazione geopolitica influirà su questo“, ha affermato Frostadóttir che poi aggiunge: “La mia più grande preoccupazione è che non riusciremo a condurre un dibattito adeguato su cosa significhi aprire i negoziati, che avremo un dibattito polarizzato su questo“.
La premier, tuttavia, mette in chiaro una cosa: gli islandesi si sentono sicuri dove stanno adesso, perché “l’Unione Europea non è un’alleanza militare in sé e per sé, anche se si sta costruendo”, riferendosi all’iniziativa di riarmo del blocco da ottocento miliardi di euro, il Readiness 2030. Dal punto di vista della leader islandese, infatti, l’isola dovrebbe aderire come parte di un quadro più ampio, senza guidare i colloqui di adesione sulla base della paura. “Ovviamente si parlerà di sicurezza”, ha detto, “e, sapete, nelle prossime settimane e mesi potremmo assistere a molti cambiamenti che potrebbero influire su questo tema”.
A queste considerazioni si aggiunge la crescente instabilità nell’Artico, che per l’Islanda rappresenta non solo un tema ambientale ma anche strategico.
La minaccia alla regione artica
Proprio su questo, Frostadóttir ha parlato delle minacce messe in atto dalle mire espansionistiche dell’amministrazione Trump, sempre più interessata a ottenere il controllo della Groenlandia, la vasta isola ricca di risorse che appartiene al Regno di Danimarca. Il Presidente americano, infatti, non ha escluso di usare la coercizione economica o la forza militare per impadronirsi del territorio semi-autonomo.

“È preoccupante. Direi che è molto preoccupante”, ha detto il primo ministro. “Siamo una nazione interamente artica. L’Artico è la nostra casa. Per noi non è solo un concetto nelle relazioni internazionali. È il luogo in cui viviamo. E abbiamo legami molto forti con il popolo groenlandese. Quindi questo è motivo di grave preoccupazione“.
Quest’ultima ha condannato gli attacchi lanciati da JD Vance contro l’amministrazione danese sull’isola, dicendo che questo “tipo di discorso” non dovrebbe essere “considerato rispettabile”, sostenendo il proprio sostegno al diritto dei groenlandesi all’autodeterminazione.
La premier ha anche lanciato un allarme circa la crescente presenza russa nella regione artica. “I piccoli Paesi come l’Islanda prosperano grazie al fatto che esiste il diritto internazionale e che i confini sono rispettati“, ha dichiarato. L’Artico “dovrebbe essere una zona pacifica. Questo è sempre stato il modo in cui abbiamo cercato di mantenerlo. Tuttavia, non possiamo essere ingenui sul fatto che ci sono molti interessi in gioco”. La crescente importanza della regione non vale solo per americani e russi, ma anche per gli europei.
Una nuova occasione strategica per l’UE
La possibile entrata dell’Islanda nell’Unione Europea può essere una grande opportunità per Bruxelles, economicamente e strategicamente. Un paio di settimane fa, non a caso, la Presidente della Commissione europea, Ursula Von Der Leyen, si è recata in visita nel Paese e ha dichiarato che l’UE avvierà colloqui per un partenariato di sicurezza e difesa con l’isola.

“Coopereremo più strettamente sulla risposta alle minacce ibride, sulla protezione civile e sulle comunicazioni sicure”, ha dichiarato Von der Leyen in un post su X dopo la conferenza stampa con la premier Frostadóttir, la quale ha dichiarato che spera che i colloqui si concludano entro la fine dell’anno: “È molto importante per noi dimostrare che possiamo avere una cooperazione sulle infrastrutture critiche, sulla protezione civile, su qualsiasi tipo di investimento nella difesa a doppio uso e questo include anche le minacce ibride e informatiche”.
Con questo accordo, come sottolineato dalla Presidente della Commissione, l’Islanda è entrata nella cooperazione europea in materia di sicurezza e difesa, aggiungendosi agli altri otto paesi alleati, tra cui Regno Unito, Norvegia e Canada. Reykjavik, dunque, potrà accedere al progetto Safe, che investe circa 150 miliardi di euro all’anno in sicurezza e difesa. È stato annunciato, infine, che una revisione completa dei termini commerciali dell’Islanda con l’Unione Europea verrà presto iniziata.
Attualmente, è impossibile sapere quale strada decideranno di prendere gli islandesi. Una cosa, però, è certa: il ritorno del dibattito sull’adesione all’UE segna quante cose siano cambiate nella regione artica, in meno di quindici anni. In un contesto di maggiore competizione e instabilità internazionale, è possibile che Reykjavik decida di schierarsi più di quanto non abbia già fatto: l’isola, infatti, fa parte dell’Alleanza Atlantica e la sua protezione è affidata periodicamente ai Paesi che ne fanno parte.
Nonostante la premier rassicuri che una scelta di questo tipo risponda a motivazioni più ampie, è evidente che un’eventuale adesione all’Unione indicherebbe non solo una rinnovata ricerca di sicurezza, ma anche un’occasione storica per rilanciare il ruolo dell’Europa nella regione artica.
Il 2027 non è lontano: l’Islanda saprà scegliere tra integrazione e autonomia? Bruxelles saprà cogliere l’occasione?
Nicolò Radice Fossati