L’uso dell’intelligenza artificiale nell’Artico apre nuove prospettive per il monitoraggio climatico e la governance geopolitica, ma solleva interrogativi cruciali su etica, sovranità dei dati e inclusione delle conoscenze indigene.
Il ghiaccio che serve al clima
L’Artico rappresenta un laboratorio naturale essenziale per la ricerca scientifica. Questa regione remota del pianeta sta infatti subendo un’accelerazione senza precedenti degli effetti del cambiamento climatico. Dal 1979 – anno in cui sono iniziate le rilevazioni satellitari – le temperature artiche sono aumentate quasi quattro volte più rapidamente rispetto alla media globale. Se questa tendenza non verrà invertita, il primo giorno senza ghiaccio marino potrebbe verificarsi già nel 2030.
E siccome ciò che accade nell’Artico non resta confinato tra i suoi ghiacci è fondamentale comprendere che l’alterazione di questo ecosistema fragile e prezioso ha ripercussioni globali. Il ghiaccio artico svolge infatti un ruolo cruciale nel raffreddamento del pianeta: riflette circa l’80% dell’energia solare nello spazio, contribuendo a regolare il sistema climatico terrestre.

Secondo lo Scripps Institution of Oceanography, la scomparsa totale del ghiaccio marino equivarrebbe a un riscaldamento pari a 25 anni di emissioni globali di CO₂. Inoltre, la sua perdita altera le correnti oceaniche, intensifica le tempeste e invia masse d’aria più calda e secca verso aree come la California, aggravando il rischio di incendi.
Le conseguenze dirette di questi cambiamenti sono già visibili nell’Artico stesso: perdita di habitat, crisi della sicurezza alimentare per fauna selvatica e popolazioni indigene, e un impatto complessivo sul delicato equilibrio della regione.
Il ruolo dell’intelligenza artificiale in un ecosistema in trasformazione
In questo contesto critico, la raccolta di dati ambientali accurati diventa fondamentale. Tuttavia, le condizioni estreme dell’Artico rendono complicate le missioni sul campo: sono rischiose, costose e spesso limitate da clima e logistica. Ed è proprio qui che entrano in gioco le nuove tecnologie, in particolare l’intelligenza artificiale (IA).
L’IA sta rivoluzionando il modo in cui raccogliamo, elaboriamo e interpretiamo le informazioni. A differenza dei modelli computazionali tradizionali, basati su istruzioni rigide, l’IA è in grado di apprendere dai propri errori, migliorando progressivamente le sue previsioni. Un esempio è l’uso dell’IA nell’analisi delle immagini satellitari, che consente di monitorare in tempo reale la riduzione dei ghiacci o le variazioni delle condizioni atmosferiche, offrendo un quadro dinamico e sempre aggiornato.
Ma l’IA non serve solo a favorire una piu ampia comprensione delle dinamiche climatiche e ambientali proprie della regione polare. LArtico, infatti, si sta progressivamente affermando come crocevia geopolitico di crescente importanza strategica. In questo contesto, l’integrazione dei dati climatici con le informazioni strategiche consente ai decisori politici di anticipare scenari complessi, come la riapertura di rotte marittime o le tensioni territoriali tra Stati.
In questo senso, l’IA diventa un alleato prezioso nella gestione multilivello delle sfide artiche, capace di fornire previsioni più articolate e meno soggette ai pregiudizi umani.
Limiti, controversie e interrogativi etici
Naturalmente, anche l’IA non è esente da limiti. La qualità dei risultati forniti dipende fortemente dai dati con cui viene addestrata. Se i dataset sono parziali o distorti – per esempio a causa della sottorappresentazione di alcune aree artiche – i modelli potrebbero fornire risultati inaccurati. Per questo è fondamentale utilizzare dati imparziali e di alta qualità, così da evitare errori sistematici e garantire una visione più equilibrata dei cambiamenti in corso.
Parallelamente, non mancano interrogativi etici e politici sull’uso delle nuove tecnologie nella mitigazione del cambiamento climatico. È il caso della controversa proposta della startup californiana Make Sunsets, che ha introdotto i cosiddetti “crediti di raffreddamento”: un grammo di anidride solforosa (SO₂) rilasciato in atmosfera per compensare l’equivalente di una tonnellata di CO₂. Per chi acquista crediti di raffreddamento, l’azienda lancia palloni meteorologici contenenti elio e SO₂, fornendo poi video e dati di conferma agli acquirenti.

Nonostante la rapidità e il costo relativamente basso per la sua realizzazione, questa tecnica ha suscitato forti critiche. Scienziati, attivisti e comunità indigene denunciano i rischi connessi alla geoingegneria solare, accusandola di deresponsabilizzare le compagnie fossili e di violare sistemi di valore e conoscenza alternativi.
Anche all’interno della comunità scientifica, il dibattito sulla geoingegneria è aperto. C’è chi teme che soluzioni di questo tipo, oltre a distorcere i modelli climatici e promuovere soluzioni solo temporanee, finiscano per ridurre gli incentivi per una vera transizione ecologica fondata sulla decarbonizzazione.
Il rischio di un “colonialismo dei dati“
Il paradigma tecnocratico si scontra anche con il sistema di valori delle popolazioni artiche tendendo a oggettivare la natura come risorsa da sfruttare e controllare. Questa visione sembra acutizzarsi proprio con la diffusione delle tecnologie basate sui dati, come l’intelligenza artificiale, che rischiano di essere implementate senza un reale coinvolgimento delle comunità locali, riproducendo logiche coloniali sotto nuove forme.
Non a caso, il crescente utilizzo di sensori, droni e altre avanzate innovazioni tecnologiche in aree artiche solleva serie preoccupazioni etiche in termini di privacy collettiva, uso non consensuale dei dati e invisibilizzazione delle conoscenze indigene. In alcuni casi, i dati ambientali e sociali vengono raccolti, elaborati e utilizzati per finalità di governance, profitto o ricerca senza che le comunità interessate abbiano voce in capitolo o controllo su come quelle informazioni verranno impiegate. Questa pratica, nota come colonialismo dei dati, ricorda da vicino lo sfruttamento delle risorse naturali e culturali che ha caratterizzato la lunga storia del colonialismo industriale.

In risposta a queste criticità, diversi movimenti indigeni e accademici hanno sviluppato il concetto di Sovranità dei Dati Indigeni (ID-SOV), ovvero il diritto dei popoli indigeni a possedere, controllare, accedere e gestire i dati che li riguardano – siano essi personali, culturali, ambientali o relativi ai loro territori. L’ID-SOV si configura, dunque, come uno strumento fondamentale per garantire l’autodeterminazione anche nell’era digitale, sottolineando come l’impiego dei dati possa riflettere strutture di potere e scelte politiche.
Un passo importante in questa direzione è rappresentato dai principi CARE (Collective Benefit, Authority to Control, Responsibility, Ethics), sviluppati dalla Global Indigenous Data Alliance. Essi mettono al centro il benessere collettivo, l’autorità decisionale delle comunità, la responsabilità e l’etica nell’uso dei dati. I CARE principles evidenziano che i dati provengono da persone reali e che, soprattutto nel caso delle popolazioni indigene, devono essere trattati con sensibilità culturale, attenzione storica e rispetto delle relazioni comunitarie.
In conclusione, ogni applicazione tecnologica in territori indigeni dovrebbe prevedere processi di consultazione informata, co-progettazione e restituzione. L’inclusione dei saperi indigeni e il rispetto della sovranità dei dati non sono semplici aspetti etici: sono requisiti imprescindibili per evitare che l’innovazione digitale si trasformi in un ulteriore strumento di disuguaglianza e sopraffazione che si ripercuota su popolazioni già fortemente minacciate dai cambiamenti in corso nel loro ambiente.
Una tecnologia al servizio della giustizia climatica
Come già detto, infatti, l’Artico è oggi una delle frontiere più sensibili e simboliche del cambiamento climatico e delle trasformazioni geopolitiche in corso. In questo contesto, le tecnologie emergenti – in particolare l’intelligenza artificiale – rappresentano strumenti potenti per raccogliere dati, prevedere scenari e supportare decisioni.
Ma la tecnologia non è mai neutrale: è il riflesso delle strutture di potere che la progettano e la implementano. Per questo motivo, non basta innovare ma occorre farlo in modo responsabile, trasparente e inclusivo.
Riconoscere la centralità dei saperi indigeni, rispettare la sovranità dei dati, evitare forme di sorveglianza o espropriazione non consensuale sono condizioni essenziali per costruire un rapporto più giusto con la tecnologia e con l’ambiente. Decolonizzare i dati, promuovere l’equità nella governance digitale e garantire benefici collettivi sono azioni che non riguardano solo le popolazioni indigene, ma interrogano l’intera comunità globale.
Se l’intelligenza artificiale vuole davvero contribuire alla salvaguardia dell’Artico e del pianeta, deve diventare uno strumento al servizio della giustizia ambientale e sociale. Solo così sarà possibile affrontare le crisi in atto senza rischiare di ripetere gli errori del passato.
Virgilia De Cicco