L’Unione Europea ha accettato un accordo da 750 miliardi di euro in combustibili fossili (su tutti il GNL) con gli Stati Uniti e subisce in silenzio un dazio medio del 15% sulle proprie esportazioni. La dipendenza energetica non viene superata, ma semplicemente spostata.
Da un Artico all’altro
Mentre Bruxelles continua a proclamare i suoi obiettivi climatici e a ribadire l’importanza e l’urgenza della transizione verde, il continente europeo è sempre più dipendente da gas e petrolio che arrivano in gran parte dal Nord. Da quando l’invasione russa dell’Ucraina ha portato l’Unione a ridefinire le proprie priorità energetiche, la ricerca di forniture alternative ha portato a una ristrutturazione dei flussi e degli equilibri a livello globale. Il risultato, tuttavia, non è un’autonomia maggiore, ma una dipendenza che, semplicemente, “si sposta”: dall’Artico russo all’Artico nordamericano.
Il GNL che raggiunge i rigassificatori di Rotterdam, Wilhelmshaven o Piombino non è più quello della Penisola Yamal, ma proviene sempre più spesso dai terminali di esportazione costruiti in Alaska, nella British Columbia o lungo la costa del Golfo del Messico, alimentati anche da risorse artiche. E se in passato era Mosca a dettare i tempi e i volumi, oggi è Washington a dettare prepotentemente le condizioni.
Con il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, gli Stati Uniti hanno rafforzato la loro strategia di penetrazione energetica in Europa. Le esportazioni di gas e petrolio, in particolare dal nord del continente americano, sono diventate uno strumento politico oltre che commerciale. L’Unione, nel tentativo di svincolarsi dalla dipendenza da Mosca, rischia quindi ora di legarsi in modo molto simile a Washington.
Dalla Russia all’America: la strategia artica di Trump
Fino al 2022, gran parte del gas artico destinato all’Europa proveniva dalla Russia, e in particolare dalla Penisola Jamal, dove Novatek aveva sviluppato un sistema di produzione, liquefazione e trasporto lungo la Northern Sea Route. Le navi metaniere navigavano i ghiacci, scortate da rompighiaccio a propulsione nucleare, e scaricavano nei porti europei passando per il Mare di Barents. Dopo l’inizio del conflitto in Ucraina, tuttavia, questo sistema è crollato. L’Europa ha interrotto gli accordi di lungo termine con Gazprom, tra gli altri, ha posto limiti alle importazioni di GNL russo e ha sospeso ogni forma di cooperazione con Mosca. Ma il bisogno di forniture energetiche è rimasto. L’attenzione, quindi, si è spostata su altri fornitori; in particolare Canada e Stati Uniti.

In Alaska, le autorità federali hanno dato nuovo slancio a progetti come Alaska LNG, un’infrastruttura colossale che punta a collegare i giacimenti artici alla costa meridionale con un gasdotto da quasi 1300 chilometri. A ovest, in particolare in Columbia Britannica, l’espansione dei terminali di esportazione si appoggia anche a risorse estratte nelle zone artiche e subartiche. Le rotte si sono quindi ridisegnate: da Est a Ovest, dalla Siberia all’Alaska.
Come è ovvio, l’energia non è – e non è mai stata – solo una merce, ma uno strumento di pressione politica. Il gas e il petrolio prodotti in Nord America si inseriscono prepotentemente all’interno di un piano che mira a stabilire una presenza stabile nei mercati europei, sfruttando la crisi dei rapporti con la Russia.
Le infrastrutture sviluppate in Alaska e in Canada non servono solo ad aumentare la capacità di esportazione. Una volta attivate, vincolano i Paesi europei a una rete di approvvigionamento difficile da sostituire, e orientano le scelte politiche ed energetiche dei clienti in funzione della continuità delle forniture. È lo stesso meccanismo già visto con la Russia, solo che questa volta, a quanto pare, va bene.
L’Europa si adegua? Sostenibilità o sottomissione
Di fronte alla nuova imposizione trumpiana, l’Unione Europea non ha opposto resistenza. Al contrario, ha accettato le condizioni offerte, ha rilanciato l’importazione di GNL statunitense e ha frettolosamente costruito intorno a tutto questo un racconto rassicurante, fatto di transizione e autonomia strategica. Ma i numeri raccontano un’altra storia.
Secondo quanto emerge da fonti ufficiali, a fine luglio l’Unione Europea si è impegnata ad acquistare fino a 750 miliardi di euro (precisamente 250 miliardi all’anno per tre anni) in combustibili statunitensi nei prossimi anni, tra petrolio, gas e nucleare. È una cifra enorme, che contrasta apertamente con ogni dichiarazione sul fronte climatico e mette in discussione la possibilità stessa di raggiungere gli obiettivi del Green Deal.

Gli obiettivi indicati da Trump sono ampiamente irrealizzabili. Gli Stati Uniti non hanno la capacità logistica per sostenere quelle forniture, né che l’Europa può effettivamente assorbirle nei tempi e nei volumi previsti. Eppure, Bruxelles ha accolto la proposta, permettendo che una promessa poco credibile si trasformasse in una vera e propria linea politica.
Il tutto avviene mentre gli Stati Uniti introducono un dazio medio del 15% su larga parte delle merci europee a partire dal primo agosto. Un “dazio reciproco” solo nel nome: l’Unione, che applicava una tariffa media dello 0,9%, ha deciso per ora di non reagire, lasciando sospesi i contro-dazi su 93 miliardi di beni statunitensi. Lo squilibrio è netto: pure a fronte di evidentissime penalizzazioni commerciali, l’UE continua a garantire agli Stati Uniti accesso preferenziale al proprio mercato energetico.
L’Unione Europea continua a presentarsi come un attore impegnato nella transizione verde, autonomo e coerente con i propri valori. Ma l’accordo energetico con gli Stati Uniti e la mancata risposta ai dazi dimostrano il contrario. La dipendenza dal gas artico russo è stata sostituita da una dipendenza, parimenti vincolante, da fonti nordamericane. Cambia il fornitore ma non la logica.
Il risultato è una politica che rinuncia a ogni ambizione, accontentandosi di inseguire obiettivi imposti da altri. La transizione resta soltanto uno slogan e la sovranità, in campo energetico, una parola vuota.
Tommaso Bontempi
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