Il progetto Alaska LNG punta a consolidare la proiezione strategica di Washington verso l’Asia orientale, ma il rafforzamento dell’asse Mosca-Pechino e la concorrenza di Ottawa mettono in discussione la sua efficacia.
A tutto gas
Come già approfondito in un precedente contributo, l’amministrazione Trump ha identificato nel progetto Alaska LNG un tassello strategico della propria agenda. L’obiettivo è esplicito: consolidare il ruolo degli Stati Uniti come superpotenza energetica, affermandosi come attore dominante nel mercato in espansione del gas naturale liquefatto (GNL). Tuttavia, le ambizioni statunitensi travalicano la mera dimensione economica.
Per Washington, infatti, l’Alaska LNG costituisce anche uno strumento di proiezione politica, in particolare nei confronti di partner asiatici chiave quali Giappone, Corea del Sud e Taiwan. Gli Stati Uniti mirano a coinvolgere questi attori non solo come offtaker di progetto (acquirenti di lungo termine del GNL), ma anche con una loro partecipazione attiva al progetto, in qualità di fornitori di tecnologia, co-sviluppatori o addirittura investitori, attraverso quote minoritarie nell’infrastruttura.
L’intento dell’amministrazione americana è chiaro: consolidare un sistema di interdipendenze energetiche in grado di strutturare in modo più saldo e duraturo le relazioni tra l’Asia orientale e l’architettura strategica statunitense. A tal fine, era stato organizzato un tour diplomatico-commerciale in Asia durante la scorsa primavera, guidato dal governatore dell’Alaska, Mike Dunleavy, insieme ai vertici dell’Alaska Gasline Development Corporation (AGDC), principale promotore del progetto.

Oltre agli obiettivi economici e politici, il progetto risponde anche a logiche di proiezione di potere nel teatro artico. Secondo la visione strategica dell’amministrazione Trump, l’Alaska LNG dovrebbe costituire un contrappeso all’espansione russa nelle rotte artiche, oggi sempre più rilevanti sul piano geoeconomico e militare. In quest’area, infatti, Mosca si è mossa in anticipo per quanto riguarda il mercato del GNL, con i due maxiprogetti, entrambi situati nella penisola di Gydan e alimentati dal secondo giacimento di gas più vasto al mondo, Yamal LNG, avviato nel 2017, e Arctic LNG 2, il cui avvio è stato ostacolato dalle sanzioni imposte dall’occidente a seguito dell’invasione dell’Ucraina. L’intento di Washington è dunque quello di sottrarre alla sfera d’influenza russa una quota crescente del mercato asiatico, rendendo così il progetto dell’Alaska una priorità strategica.
Tokyo dubita?
Tuttavia, negli ultimi mesi, una serie di segnali provenienti sia dall’Asia sia dall’Artico ha contribuito a generare incertezza attorno al progetto. Se inizialmente i partner asiatici avevano manifestato un certo entusiasmo, per quanto prevalentemente formale, le evoluzioni più recenti sembrano aver raffreddato tale slancio. La posizione giapponese al riguardo, in particolare, rimane abbastanza incerta. Un articolo del Financial Times, infatti, informa che un dirigente di JERA, il maggiore importatore mondiale di gas naturale, ha riferito di aver ricevuto indicazioni dalle autorità nipponiche affinché ogni eventuale partecipazione sia valutata esclusivamente secondo criteri di convenienza economica, evitando interferenze di natura strategica o diplomatica.
Inoltre, una fonte vicina ai negoziati tra funzionari statunitensi e giapponesi ha osservato che la Casa Bianca si è limitata ad affermare che “gli Stati Uniti e il Giappone stanno valutando un nuovo accordo di prelievo di GNL dall’Alaska”, ben lontano dal raggiungimento di un accordo per la costituzione di una “joint venture” proclamato dal presidente americano. Tali segnali tradirebbero una crescente prudenza, se non una latente freddezza, da parte di Tokyo. Gli ultimi giorni, tuttavia, hanno registrato nuove evoluzioni.
Eppur si muove
Lo scorso 5 settembre, infatti, Tokyo e Washington hanno firmato un Memorandum of Understanding (una lettera d’intenti) che, secondo quanto riferito dal segretario del commercio americano Howard Lutnick, darebbero la quasi totale libertà alla controparte americana di decidere come allocare gli ingenti investimenti che Tokyo ha promesso di investire negli Stati Uniti in modo tale da evitare dazi eccessivamente elevati.
Un segnale in questa direzione è arrivato proprio nei giorni successivi. A margine del Gastech di Milano, Glenfarne Group, che ha assunto la guida operativa del progetto all’inizio del 2025, ha annunciato la firma di una lettera d’intenti con JERA per l’acquisto di un milione di tonnellate annue di GNL dall’Alaska per vent’anni. L’intesa, presentata alla presenza del Segretario all’Interno Doug Burgum e del Segretario all’Energia Chris Wright, rafforza la posizione americana, mostrando che – al di là delle cautele politiche – le trattative con Tokyo avanzano.

I dubbi di Seul
Un atteggiamento cautelativo sembra emergere anche da Seul. Sempre l’articolo del Financial Times rivela che alcuni funzionari sudcoreani, parlando in forma riservata, hanno espresso “seri dubbi” circa la sostenibilità economica dell’Alaska LNG, con particolare riferimento agli elevati costi infrastrutturali del gasdotto e alla carenza di trasparenza nelle comunicazioni da parte statunitense. Pur registrandosi un interesse preliminare da parte di alcune aziende sudcoreane coinvolte nella fase realizzativa, il governo ha chiarito di non aver assunto alcun impegno formale. Ha inoltre smentito la narrazione statunitense secondo cui il recente accordo energetico da 100 miliardi di dollari sottoscritto con Washington comprenderebbe anche il progetto in Alaska.
Cina e Russia sempre più vicine
Mentre gli alleati asiatici temporeggiano, lo scenario geopolitico nell’Artico evolve con rapidità. Negli ultimi mesi, infatti, si è assistito a un significativo rafforzamento dell’asse Mosca-Pechino, un partenariato che fino a poco tempo fa appariva incerto, ma che oggi si sta consolidando con decisione. Il 28 agosto, la Cina ha ricevuto il primo carico di GNL dal progetto russo Arctic LNG 2, gestito dal colosso energetico Novatek.
Si tratta della prima fornitura nota diretta a un acquirente finale dall’inizio delle operazioni dell’impianto, dopo una lunga fase in cui le esportazioni erano state ostacolate dal rischio di sanzioni secondarie. La nave Arctic Mulan, battente bandiera russa, ha attraccato in un porto cinese nonostante fosse sottoposta alle sanzioni statunitensi (settembre 2024) ed europee (luglio 2025). Il carico del 28 agosto non è stato un fiore nel deserto: il 6 settembre, infatti, è arrivato in Cina un secondo carico, proveniente anch’esso da Arctic LNG 2. Sono segnali inequivocabili: Pechino è determinata a consolidare la cooperazione energetica con Mosca, anche a costo di sfidare apertamente le pressioni occidentali.

L’agenzia TASS rivela che Yevgeny Ambrosov, vicepresidente del Consiglio di amministrazione di Novatek, ha dichiarato che la società sta sviluppando soluzioni alternative per garantire una flotta dedicata al progetto, inclusa la costruzione di navi rompighiaccio di classe superiore, dopo che le sanzioni hanno impedito la consegna delle unità costruite in Corea del Sud. Dopo anni di stasi e rallentamenti, il progetto Arctic LNG 2 sembra dunque essere entrato in una fase di pieno rilancio, spinto dalla cooperazione sempre più sinergica con Pechino.
Un nuovo gasdotto dalla Siberia
A confermare ulteriormente il rafforzamento dell’asse russo-cinese è giunto, pochi giorni dopo, l’annuncio, avvenuto durante il vertice SCO di Tianjin, dell’accordo definitivo per la costruzione del gasdotto Power of Siberia 2. Si tratta di un’infrastruttura monumentale, dalla capacità stimata di 50 miliardi di metri cubi annui, che collegherà i giacimenti artici della penisola di Gydan alle province industriali cinesi, attraversando il territorio della Mongolia. Un’opera dal valore complessivo superiore ai 55 miliardi di dollari, che consentirà alla Cina di accedere a forniture di gas russo a condizioni particolarmente vantaggiose, grazie alla significativa leva negoziale che Pechino può esercitare nei confronti del Cremlino.
Dietro tale accelerazione si intravede una strategia ben calibrata. Pechino mira a garantirsi approvvigionamenti energetici stabili e a basso costo per sostenere la ripresa della propria economia, che negli ultimi anni ha evidenziato segnali di rallentamento, anche a causa dell’aumento del costo del lavoro e di una progressiva erosione della competitività industriale. Il gas russo si configura come una soluzione ideale: una base di approvvigionamento costante e affidabile tramite gasdotto, da integrare con una componente modulare di GNL, attivabile in funzione delle oscillazioni stagionali della domanda. Questo schema potrebbe indurre un ribasso strutturale dei prezzi del gas nella regione Asia-Pacifico, orientando anche altri attori regionali verso il gas russo, a scapito delle esportazioni statunitensi.
Canada, l’alleato in competizione
A rendere ancora più articolato lo scenario per gli Stati Uniti è il posizionamento di un attore tradizionalmente alleato, ma oggi sempre più intenzionato a perseguire una propria traiettoria strategica: il Canada. Complice anche la guerra commerciale avviata dall’amministrazione americana, Ottawa sembra determinata a mantenere una certa distanza dai proclami di Washington, elaborando una propria agenda autonoma nel settore energetico.
In tale contesto si inserisce il progetto LNG Canada, localizzato nella Columbia Britannica e avviato ufficialmente con la prima esportazione nel luglio 2025. L’infrastruttura rappresenta una valida alternativa per il mercato asiatico, non solo per la sua collocazione geografica e la competitività dei costi, ma anche per l’approccio multilaterale che la caratterizza. La joint venture alla guida del progetto, infatti, è composta da Shell (quota di maggioranza del 40%) e da attori asiatici di primo piano quali Petronas (25%), PetroChina (15%), Mitsubishi (15%) e Kogas (5%). Questo assetto consortile, percepito come più inclusivo e prevedibile, appare maggiormente rassicurante per i partner asiatici rispetto al modello americano, oggi visto come eccessivamente influenzato da interessi domestici e soggetto a cicliche instabilità politiche.
Il ridimensionamento di Alaska LNG?
Tutti questi fattori stanno contribuendo a ridimensionare le aspettative entusiaste degli inizi attorno al progetto Alaska LNG, che fino a pochi mesi fa era considerato uno dei pilastri della strategia di espansione energetica statunitense. Le ambizioni economiche, politiche e geopolitiche di Washington si scontrano ora con una realtà ben più complessa: un’Asia più cauta e pragmatica, seppure la recente intesa con il Giappone sembri dipanare questi dubbi; una Russia rafforzata dal consolidamento del suo asse con la Cina; un Canada che si ritaglia un ruolo autonomo nel mercato globale del GNL; e, infine, un contesto commerciale che, qualora gli accordi russo-cinesi dovessero consolidarsi a prezzi sensibilmente inferiori a quelli di mercato, potrebbe subire una deflazione strutturale del prezzo della commodity, disincentivando ulteriormente gli investimenti necessari alla realizzazione dell’infrastruttura in Alaska.
Se gli Stati Uniti intendono realmente ricoprire un ruolo di primo piano nelle nuove rotte energetiche artiche, sarà necessario ripensare radicalmente le modalità di cooperazione sinora adottate. I modelli attuali, più che rafforzare l’architettura delle alleanze, sembrano infatti aver generato incertezza tra i partner, alimentando la percezione di un’America meno affidabile, più assertiva che inclusiva. La sfida, oggi, non è solo infrastrutturale o commerciale: è soprattutto diplomatica.
Davide Guelfi