© Osservatorio Artico
Un altro capitolo del diario di bordo di Enrico Peschiera, che ha intrapreso un viaggio-avventura attraverso le Svalbard a bordo del veliero Linden, organizzato dal nostro partner FRAMTours. Siamo a Ny-Ålesund, il villaggio della scienza.
È mattina. Salgo nella sala comune del Linden, elegante e calda, legno chiaro e divanetti rossi. Riempita una tazza di caffè all’americana (niente espresso da queste parti), getto lo sguardo dentro un oblò. C’è una nave, una nave molto grande, è una crociera. Un po’ più piccola di quelle che fanno lo skyline della mia Genova, colossi del mare alti più dei palazzi, ma pur sempre molto grande. La bandiera è francese: Ponant la compagnia, lei è la Le Lyrial. Bella no, a mio modo di vedere. Ma in qualche modo elegante.
Questa nave porta fino a trecento facoltosi passeggeri su e giù per i fiordi dell’arcipelago. La sua sorella maggiore, la Commandant Charcot, è l’unica nave di questo tipo in grado di raggiungere i 90 gradi nord. In gergo meno tecnico, il Polo Nord.
Ancora una volta, la conferma: dalle miniere alle crociere. Siamo di fronte a Ny-Ålesund, il villaggio della scienza, popolato da ricercatori di tutto il mondo impegnati a studiare questo ambiente estremo e a indagare le cause e gli sviluppi del riscaldamento globale, che qui viaggia molto velocemente. Si trova sulla sponda sud del Kongsfjorden, il fiordo del Re.
Un tempo, scontato dirlo, era una miniera di carbone. Anzi, era il villaggio alle pendici del monte da cui si estraeva. Si scavò molto qui, un secolo fa e oltre, galvanizzati dalla quantità portentosa di quell’oro nero che ancora scalda una grossa fetta dell’umanità, non senza conseguenze. Ma non ci volle troppo perché, scesi più in profondità, i sudditi del re scandinavo trovassero il carbone sempre più fratturato e inadatto all’estrazione. Sembrava la più promettente, divenne la più fatale.
Insieme al carbone, infatti, uscì fuori un’altra risorsa del sottosuolo: sacche di gas. Bastava una sigaretta, meritata pausa di un minatore sfinito, e l’aria rarefatta avrebbe preso fuoco. Successe più di una volta, senza scampo per i poveracci là sotto. Settantacinque ancora riposano nelle viscere della montagna.
Ancora si notano qua e là, come in molti altri punti dell’arcipelago, i resti del passato minerario. Carrelli arrugginiti, rotaie divelte, i piloni della vecchia funivia. Ma a rendere inconfondibile lo skyline del villaggio più a nord del mondo c’è un curioso palo di forma triangolare, alto una trentina di metri, appena fuori dal paese.
Non si tratta di archeologia industriale, non era quello il suo scopo: era la stazione di attracco del dirigile Norge, progettata da Umberto Nobile in persona. Oggi qualcuno lo definirebbe un orgoglio del made in italy. E in effetti, pensando all’epopea di quegli uomini straordinari che un secolo fa sfidarono i cieli gelati a bordo di un gigantesco pallone volante, mi viene un po’ la pelle d’oca. Era il 1926, cento anni fa. “Amundsen-Ellsworth-Nobile. Honouring a glorious achievement of human endeavour” recita la targa posta dall’aeronautica italiana nel 1983.
Le costruzioni di Ny-Ålesund somigliano a quelle di Longyearbyen. Le fondamenta in legno affondano nel permafrost facendole quasi sembrare delle palafitte. Ciascuna ospita una stazione scientifica. India, Sud Korea, Francia e Germania, Inghilterra e tante altre. E poi la nostra base “Dirigibile Italia”, a ricordare la tragica vicenda degli italiani che ritentarono la volata al Polo con un equipaggio tutto tricolore.
Finì in tragedia: lo schianto, la tenda rossa con i superstiti fra cui il Generale Nobile, la scomparsa di Amundsen alla ricerca dei dispersi. Al centro del paese campeggia proprio la sua statua, un busto di bronzo dal volto aguzzo e il naso dantesco, a rendere immortale il leggendario esploratore norvegese. Ma questa, anzi queste, sono storie che meritano di essere raccontate a parte. Lo abbiamo già fatto, lo faremo ancora.
Una casetta si distingue, non per la diversa architettura ma per due statue all’ingresso. Due leoni di marmo: è la base cinese, dove tengono molto alle apparenze. Il dragone si sente uno stato quasi Artico, e non manca di farcelo percepire anche qui. Di recente, il governo norvegese aveva chiesto di rimuoverle, monito alla sobrietà o inno alla fedeltà euroatlantica che di questi tempi va riconfermata anche coi simboli. Ma i cinesi, per ora, i leoni li tengono lì.
Il villaggio è minuscolo, ma un paio d’ore passano in fretta. Il paesaggio è mozzafiato. Ai lati della strada sterrata, bagnata in vista dell’arrivo dei crocieristi francofoni per evitare di sollevare un polverone (letteralmente), crescono erba e muschi di un colore verde brillante. La giornata è perfetta, le poche nuvole donano alle cime circostanti ancora più fascino. Laggiù in fondo alla Baia del Re, il gigantesco ghiacciaio.
Lasciato quest’ultimo avamposto di civiltà, ci dirigiamo proprio verso la distesa di ghiaccio. In pochi minuti, l’acqua piatta del fiordo comincia a popolarsi di forme bianche. All’inizio piccole, poi sempre più grandi. Iceberg che fluttuano, candidi alcuni, altri di un azzurro che non avevo mai visto. Non un azzurro, ma l’Azzurro. Una visione fiabesca, mi pare di vivere un sogno. Qualcuno passa a pochi metri da me, e posso sentirlo scoppiettare.
Si sta sciogliendo, spaccandosi e liberando l’aria al suo interno, come un cubetto di ghiaccio quando gli versi sopra una bevanda. E questo un po’ mi inquieta: il ghiacciaio, mi dice Cristian, in un giugno di cent’anni fa sarebbe arrivato alle pendici della cittadina. Si è ritirato per chilometri.
La giornata, dal meteo invidiabile per chi si avventura da queste parti (le guide non si stancano di ripeterci quanto siamo fortunati, ad avere giornate serene come questa) non si è ancora conclusa. È tempo di riprendere lo zodiac e fare un altro landing. Direzione Ny-London.
Già, perché da queste parti è sempre valso il vecchio principio “chi prima arriva meglio alloggia”. E fra i tanti che hanno reclamato queste terre, non potevano mancare i britannici, da sempre esperti nel disegnare linee sulle mappe a loro piacimento. Scesi su una spiaggetta, dopo pochi passi incontriamo un paletto, con una targa in bronzo: “owned by the Northern Exploration Company Ltd. Claimed in 1905”.
Siamo su un’isola, l’isola di Blomstrandøya, ma lo si è scoperto solo recentemente per la ritirata dei ghiacci. Gli inglesi arrivarono qui affamati di pellicce e dei tesori del sottosuolo. Una vecchia trappola per le volpi ne rivela il passaggio, camminiamo per tratti ancora ghiacciati, le sterne artiche ci svolazzano sopra la testa. Poi un piccolo crinale rivela la nostra destinazione: una “nuova Londra”, letteralmente due baracche in legno, a poca distanza un mucchio di ferraglia.
Anche nota come Camp Mansfield, dal nome dell’imprenditore che venne a piantare quel paletto. Abbiamo già visto ferraglia in giro, ma qui il fascino è davvero notevole. Ingranaggi, pezzi di ferrovia, una piccola gru, una cucina di ghisa in mezzo al nulla, unica superstite della casa che la circondava. Un luogo dal fascino irresistibile, enfatizzato dalla presenza, là in mezzo alla baia, della nostra Linden. Veliero d’altri tempi, col ghiacciaio alle spalle, è di una bellezza surreale.
Il tempo e le intemperie, da più di un secolo, passano sopra i resti di questa avventura imprenditoriale finita male. Già, perché il signor Ernest Mansfield qui non si era messo a scavare per il carbone, ma per il marmo. Un marmo purissimo, da far invidia a Carrara, prometteva ai suoi clienti londinesi. E in gran quantità, tanto che la definì “nientemeno che un’isola di puro marmo”. Caricarono il primo vascello della preziosa pietra, già pensando a quale pavimento regale sarebbe andata a comporre.
Ma, giunto a latitudini più basse e temperature più alte, il marmo purissimo si frantumava. “colpa dei manovratori del Porto”, asserì Mansfield, promettendo ai suoi investitori che il prossimo carico sarebbe stato un successo. Ma lui lo aveva capito che non erano i manovali, e mentre il secondo vascello veniva nuovamente caricato, vendette le sue azioni. Di nuovo, arrivato a Londra il marmo su ruppe.
Colpa del crioclastismo, un fenomeno per cui la roccia si disgrega a causa dell’aumento di volume dell’acqua contenuta al suo interno. Troppo caldo, insomma, per mantenere la preziosa pietra intatta. Un fallimento, la piccola miniera fu chiusa dopo solo qualche anno e i suoi resti ancora sono lì. Il signor Mansfield però, le tasche le aveva riempite comunque.
Enrico Peschiera
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Ehi ,ma qui ci dev’essere stata una scuola di giornalismo x scrivere così !
Ti fai leggere benissimo,anche l’altro pezzo coinvolgente come questo ,complimenti!