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Un viaggio in Groenlandia per cercare di capire da vicino un cambiamento strutturale, culturale e politico che potrebbe rivoluzionare l’isola più grande del mondo.
Le sale del Nationalmuseum and Archieve of Greenland si espandono in quelli che una volta erano gli spazi commerciali del piccolo porto coloniale di Nuuk, la capitale della Groenlandia. E chiamarla capitale è già un controsenso, in questa immensa oasi bianca a cavallo tra i continenti. Da una parte, l’Europa. Da qui partirono i coloni che nel Settecento misero in piedi i primi insediamenti delle coste occidentali della Groenlandia, e che oggi rappresentano praticamente l’unico passato architettonico. Dall’altra, il continente americano. Proiezione di sé stesso nei burger dei (pochi) ristoranti di Nuuk, connesso alla comunità Inuit grazie a una lunga tradizione etnica comune, che oggi però, dalle parti di Washington, guarda all’isola di ghiaccio – una volta “verde” – con appetiti politici, più che economici.
Nel mezzo, la Groenlandia. Terra lontana per definizione, per noi mediterranei, che la usiamo nel nostro sestante mentale per indicare l’estremo Nord, come gli Antipodi rappresentano quanto di più distante e aleatorio da noi, nei mari caldi. La civiltà di Thule decise molti secoli fa di arrivare su queste coste, quando ancora i ghiacci permettevano passaggi più facili dal Canada settentrionale. E scoprirono presto la durezza del suo clima, anche se si seppero installare in fiordi e piccoli insediamenti dediti alla caccia e alla pesca, in condizioni disumane. Termine appropriato, se consideriamo che la vita comune delle comunità, minuscole, era per necessità più vicina alle abitudini degli orsi polari, con vere case sotterranee per mantenere il calore e per dare rifugio alle famiglie.
Mentre esploriamo il museo, non possiamo non domandarci perché restarono. Certo, il clima era diverso, in certi versi. La storia dell’arrivo di Erik il Rosso, con il suo battesimo della Groenlandia come “terra verde” fece il resto, con comunità di europei bianchi e alti che iniziarono a stabilire qui insediamenti e piccoli villaggi più organizzati, dove pascoli e agricoltura segnarono anche la crescita di una comunità di migliaia di abitanti. Villaggi poi abbandonati gradualmente, per poi scomparire del tutto. Le cause non sono ancora certe, anche se è probabile che una commistione di fattori, tra cui il cambiamento climatico (eh già) contribuì ad accelerare la scomparsa della colonizzazione norrena.
Oggi Nuuk è un altro pianeta. Qui è tutto all’anno zero. Anche il calcio, come ci racconta Patrick Frederiksen, centrocampista offensivo della B67, la più gloriosa squadra di calcio della Groenlandia, mentre il tramonto inizia a fare capolino sulla capitale, intorno alle undici di sera. Ma il sole non calerà mai del tutto, in questa stagione. “Il campionato è appena iniziato, e dura pochi mesi, anche perché in pieno inverno è impensabile. Oggi abbiamo uno stadio e un paio di campi moderni, ma manca tutto, e per questo giochiamo tutti a futsal, ma chiaramente è tutto a livello amatoriale. La politica deve fare di più, e farci connettere a una federazione internazionale che ci permetta di crescere”, racconta.
I cantieri di Nuuk sono ovunque. In pieno centro, dove un gigantesco complesso scolastico ha sostituito uno dei vecchi “Blocchi” in cui la popolazione Inuit era stata forzata a trasferirsi durante gli anni Settanta del Novecento. Una condizione migliorativa, secondo il governo di Copenhagen, che tramite il suo regno decide in ultima analisi il presente e il futuro della Groenlandia. Un passaggio subìto ma tagliente, per gli abitanti locali, che della colonizzazione danese hanno ancora tremendi, ma freschi ricordi. “Ma le nostre famiglie sono miste, non abbiamo alcun problema con la Danimarca”, ci raccontano diverse voci, anche fuori dai bar, mentre dentro si gioca a sparare (virtualmente) a renne, cinghiali e foche.
La città ha suoi orari, suoi tempi. Ce lo hanno ripetuto tutti: “Non aspettatevi puntualità”. Invece, il sistema dei trasporti urbani è efficiente, pratico, semplice. Certo, le strade arrivano al massimo a 6 chilometri di distanza dal centro, e lì si fermano. Una catena montuosa circonda la città, e mentre il termometro oscilla tra i 3 e i 18 gradi, a seconda della giornata, blocchi di ghiaccio navigano nelle acque a ridosso del nuovo porto commerciale, mentre due pattugliatori danesi controllano la navigazione. Anche se, in realtà, sono presenti più che altro come postura nazionale, dopo le esternazioni della Casa Bianca degli scorsi mesi.
Dopo una settimana di incontri, scoperte, interviste e di tanti passi dentro e intorno a Nuuk, torniamo in Italia con tante domande, ben più di quelle che avevamo quando siamo arrivati qui. Lontano da tutti, ma sempre più vicini al tempo contemporaneo.
Leonardo Parigi
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