La glaciologa dell’OGS Florence Colleoni. Crediti: PNRA
Più di 40 tra scienziate e scienziati che studiano le regioni polari hanno pubblicato una valutazione degli approcci di geoingegneria più diffusi.
Cinque proposte di geoingegneria destinate a salvare l’Artico e l’Antartide rischiano in realtà di danneggiare gli ecosistemi, incrinare le relazioni internazionali e ridurre le possibilità di raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. È quanto emerge da una valutazione appena pubblicata su Frontiers in Science, e firmata da oltre quaranta scienziati ed esperti di aree polari di tutto il mondo. Tra questi, la glaciologa Florence Colleoni dell’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale (OGS).
Lo studio prende in esame le proposte più discusse, che spaziano dal rilascio di particelle riflettenti in atmosfera per limitare l’impatto dei raggi solari, alla costruzione di barriere sottomarine per proteggere le piattaforme di ghiaccio, fino all’ispessimento artificiale del pack o al pompaggio di acque basali sotto i ghiacciai. Altre ipotesi riguardano la fertilizzazione degli oceani polari per stimolare la crescita di fitoplancton capace di catturare carbonio. Si tratta di progetti ambiziosi, che mirano a mascherare o rallentare gli effetti del riscaldamento globale intervenendo direttamente su atmosfera, oceani e ghiacci.
Eppure, spiegano i ricercatori, nessuno di questi approcci dispone di prove sperimentali solide, né appare fattibile su larga scala e in tempi utili a fronteggiare la crisi climatica. Le regioni polari sono tra gli ambienti più ostili in cui operare, e la realizzazione di tali interventi richiederebbe una presenza umana e infrastrutturale mai vista prima. Inoltre, ogni proposta porta con sé gravi conseguenze collaterali. Dal depauperamento dell’ozono ai rischi ecologici delle microsfere di vetro sul ghiaccio, fino alle alterazioni degli habitat marini dovute a barriere artificiali o fertilizzazioni oceaniche.
A questi problemi si sommerebbero i costi. Secondo le stime, ogni progetto richiederebbe almeno dieci miliardi di dollari per installazione e manutenzione, con picchi di oltre 80 miliardi per opere come barriere sottomarine lunghe decine di chilometri. Spese che, avvertono gli autori, sono probabilmente sottostimate e destinate ad aumentare se si includono gli impatti ambientali e logistici. Mancano inoltre regole chiare. Alcune tecniche ricadrebbero sotto il Trattato Antartico, altre sotto le convenzioni Onu contro l’inquinamento marino, ma per molte non esistono quadri normativi adeguati.
Per la comunità scientifica, il rischio più grande è che queste soluzioni speculative diventino un alibi per governi e industrie, permettendo loro di rimandare i tagli alle emissioni di anidride carbonica. “Anche se le intenzioni sono condivisibili, parliamo di progetti costosi, complessi e dall’efficacia controversa, che rischiano di distogliere risorse dalle strategie realmente efficaci: quelle basate sulla decarbonizzazione”, sottolinea Florence Colleoni.
Lo stesso concetto è ribadito da Martin Siegert, professore all’Università di Exeter e primo autore dello studio: “Il nostro tempo, il nostro denaro e le nostre competenze devono concentrarsi sugli sforzi comprovati per raggiungere la neutralità climatica. Abbiamo ancora la possibilità di eliminare le emissioni entro il 2050 e, se riusciremo, il riscaldamento globale potrà stabilizzarsi entro vent’anni, con benefici concreti per le regioni polari e per l’intero pianeta”. Considerazione netta: la geoingegneria, almeno per ora, rimane un’illusione pericolosa.
Leonardo Parigi
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