Real Ice e l’intervento climatico, Ceccolini: “Necessario il supporto della tecnologia per tenere le temperature al di sotto di soglie pericolose, e guadagnare tempo per completare la decarbonizzazione della società”
Il riscaldamento globale continua ad avanzare, anche se i primi mesi del 2025 hanno visto quasi scomparire il tema dell’ambiente e del cambiamento climatico dalle agende politiche internazionali. L’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, insieme alle notizie da prima pagina sulla morte di Papa Francesco e sui dazi di Washington, hanno quasi eliminato parole come “sostenibilità” dall’immaginario collettivo. “I temi sono tutt’altro che scomparsi”, racconta Andrea Ceccolini, CEO di Real Ice, “ma anche noi a Londra abbiamo visto un forte affievolimento della sensibilità ambientale, a fronte di ciò che vediamo evolvere nel mondo in questo momento”.
Real Ice, già partner di Osservatorio Artico per l’evento di Bologna “Italia chiama Artico”, rappresenta perfettamente le potenzialità dell’età contemporanea. Dati, scienza, tecnologia e una spiccata sensibilità ambientale. Il ghiaccio marino artico riflette una notevole quantità di luce solare nello spazio, contribuendo al raffreddamento generale del pianeta, grazie al suo colore chiaro. Questa azione continuativa, detta “effetto albedo“, è stata messa in crisi dal riscaldamento globale e dalla minore capacità del ghiaccio marino artico di ricrearsi durante l’anno. “Lo scorso inverno abbiamo condotto nuovi test in Canada, a Cambridge Bay, con tre diversi cicli di ispessimento del ghiaccio. Tra dicembre, gennaio e febbraio abbiamo condotto test ed esperimenti diversi su una superficie di circa 250mila metri quadrati, di cui ben 86mila sono stati coperti due volte”.
“Riuscire a fare più esperimenti contemporaneamente ci consente di avere più risposte simultanee, ma ovviamente l’attuale fase che stiamo portando avanti ha ancora un orizzonte lungo, e dipende sia dal successo dei nostri test che dall’esito positivo di una valutazione dell’impatto ecologico”, sottolinea Ceccolini, che guarda già al 2027, quando il progetto complessivo – che gode del supporto istituzionale di numerose università britanniche e americane di primo livello – prevede l’utilizzo di droni subacquei in grado di andare a bucare i ghiacci e pompare acqua sul ghiaccio, così da ispessirlo.
“In ognuna delle otto aree di test faremo 25 misurazioni durante il periodo estivo, e in più prenderemo carotaggi da analizzare per la parte chimica. Questo ci servirà per avere risposte precise sulla salinità del ghiaccio, in attesa del periodo dello scioglimento. Una volta che avremo una fotografia chiara, anche grazie alle foto aeree che faremo regolarmente e a tutti i dati storici satellitari, potremo capire se la nostra attività avrà funzionato, ritardando anche solo di una settimana lo scioglimento del ghiaccio”.
Se l’idea sembra facile, la realizzazione non lo è. Ed è necessario stare attenti a ogni singolo dettaglio. “Ci aspettiamo un ghiaccio più poroso”, conferma Ceccolini, “ma questa cosa è positiva, perché consentirà quindi di far drenare l’acqua che via via si scioglie, creando altrimenti grandi pozze blu, che ricevono maggior calore alimentando il processo di scioglimento. È un percorso di lavoro molto particolare, che lega le conoscenze antiche delle popolazioni indigene alla tecnologia più all’avanguardia che possiamo esprimere”.
Il tema della connessione con il mondo locale non è una finezza, ma una base di lavoro. “Molti mesi prima di iniziare i nostri primi test, abbiamo iniziato a parlare con le comunità Inuit locali, lavorando con loro e non figurandoci come un corpo estraneo. Questa strada è fondamentale, non soltanto in un’ottica economica di ritorno per chi lavora con noi tra gli Inuit, sarebbe riduttivo. Apprendiamo competenze locali fornendo strumenti di alta tecnologia, e così possiamo anche pensare di attivare forti connessioni con team indigeni, innescando processi produttivi di ampia scala”.
Il Canada, che ha appena visto l’elezione di un nuovo governo a trazione liberal, vive inoltre una stagione di forte contrapposizione con la Casa Bianca. Ma la cooperazione scientifica, per sua natura trasversale e internazionale, necessita di una visione onnicomprensiva. Possibile che si rifletta anche sulla scienza più sofisticata, la politica internazionale?
“Altroché. Molte università statunitensi vedono gravi minacce ai finanziamenti non soltanto per le attività umanistiche più invise all’attuale amministrazione, ma anche a progetti ed esperimenti sicuramente costosi, ma importanti per il cammino della ricerca. Tanti scienziati e ricercatori stanno già cercando attivamente lavoro nelle università europee, e la Francia si è già mossa con grande attivismo per fare scouting.
Il punto è che agire in questo senso, così come possiamo fare noi nelle nostre attività, traguarda di molto i confini nazionali, e il tempo stesso. Se lavoriamo bene oggi, insieme, potremo ancora avere un futuro solido davanti a noi”.
Leonardo Parigi
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