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Prosegue la circumnavigazione delle isole Svalbard sul veliero Linden, nel viaggio curato dal nostro partner FRAMTours. Il reportage del nostro inviato Enrico Peschiera.
“Pyramiden è molto spesso definita come una ‘ghost town’, una città abbandonata popolata dai fantasmi. Beh, se questo è vero, avete appena conosciuto uno dei fantasmi che la abitano“. Si presenta così Diana, la nostra guida, occhi sottili e glaciali come il contesto che la circonda. L’Unione Sovietica è caduta da un bel po’, ma qui ancora troneggia il busto di Lenin. Uguale a tanti, ma unico: è il più a Nord del mondo. Sorveglia la città con volto severo, ma dove un tempo incrociava lo sguardo dei suoi Tovarišč ora pascolano le renne. Quasi duemila persone vivevano qui, sul settantanovesimo parallelo, in un ambiente che tutto sembra fuorché adatto all’insediamento umano. Ma la montagna che la sovrasta e che le ha dato il nome, una maestosa roccia a forma piramidale, nascondeva il carbone, tanto carbone.
Il busto del padre della rivoluzione d’ottobre, però, è il punto dove si conclude la visita a Pyramiden. Prima di vederlo e di incontrare Diana, approdiamo con il Linden sul molo. Una vecchia gru arrugginita si staglia sull’acqua piatta del fiordo, dietro di lei si intravedono le carrucole che portavano su e giù il carbone dall’ingresso della miniera, quattrocento metri sopra l’insediamento. Poco più in là sulla montagna, strizzo gli occhi per leggere una grossa scritta in cirillico e in inglese, creata con dei massi bianchi appoggiati sulla superficie della nera montagna. “Мир” “Peace!”. Che ironia.
Tre uomini arrivano a bordo di un pick up targato semplicemente “Pyramiden”. Non sono qui per accoglierci, ma restano per un po’ ad ammirare il nostro veliero. Poi, senza troppa convinzione, si mettono a sostituire alcune assi del pontile, una cassa portatile li accompagna con una sorta di pop-rock cirillico.
Ma come, non era una città abbandonata? In realtà, nonostante la miniera sia stata chiusa quasi quarant’anni fa, non è passato un inverno senza che qualcuno vivesse qui. Il motivo si deve al trattato che regola queste isole dal 1920: la sovranità è norvegese, ma ogni Paese firmatario ha diritto a sfruttare le risorse dell’arcipelago, o quantomeno a dimostrare di essere qui per un motivo. E nonostante il carbone non faccia più gola da tempo, ai russi non piace proprio l’idea di lasciare i propri insediamenti in quelle che considerano anche le “loro“ isole.
La nuova industria, di nuovo, è il turismo. A Pyramiden c’è un hotel, il Tulipano, e alcune persone che mantengono l’insediamento che attrae curiosi da tutto il mondo. Diana quindi non è l’unico fantasma che popola la vecchia cittadina sovietica, dove il tempo sembra essersi fermato. Sono in pochi, dice una ventina, ma quanto basta a mantenere la presenza qui.
Ci incamminiamo verso la città, che mi aspettavo molto più piccola. Non sono pochi, invece, i casermoni in stile sovietico alti anche quattro piani. Sono tutti abbandonati, tranne l’hotel e un edificio in cui vivono i pochi guardiani di questo luogo inquietante ma anche estremamente affascinante. Una miriade di gabbiani ha preso possesso di un edificio, nidificando sui davanzali delle finestre chiuse da più di trent’anni. Le renne pascolano libere, in cerca degli sparuti fili d’erba che spuntano fra i resti del passato industriale. Barili di latta, pezzi di macchinari arrugginiti, carrelli, gru, quel che resta di un vecchio pick up con impresso ancora il logo della società che ha fondato e tuttora controlla questo insediamento.
Artikugol, scritto in cirillico, e un orso polare come simbolo. È la società che gestisce le miniere di Spitzbergen, a sua volta controllata da un’organizzazione un po’ più grande: il Cremlino.
Incontriamo Diana davanti all’hotel, ci accoglie con il fucile in spalla e un marsupio a tracolla della Fila (sottotitolo: italian heritage, simpatica coincidenza). Non vi spaventate, è per via degli orsi polari. Capita spesso, infatti, che il re dell’Artico si faccia una passeggiata per viale Lenin. Ci racconta persino che qualche anno fa, uno dei guardiani del posto un po’ sbadatamente lasciò del cibo avanzato dalla cena nella cucina, con la finestra aperta. Sceso durante la notte per uno spuntino, trovò un orso con le mani nella marmellata, letteralmente. Finì bene, ma qui non si scherza con il più grande predatore del nord. Anche le nostre guide, in ogni landing che facciamo, sono armate. Non si sa mai.
Insieme alla nostra guida, ci immergiamo nella vita delle migliaia di persone che popolarono questo luogo per decenni. “Questo edificio ospitava le donne single ed era chiamato Parigi, perché alla sua inaugurazione era presente un’attrice molto famosa all’epoca, che vestiva un abito nero comprato a Parigi. Quello invece era chiamato Londra, e ospitava i maschi senza moglie. La leggenda narra che gli uomini scavarono un tunnel da Londra a Parigi, chiamato La Manica. Non so se sia vero, di certo in poco tempo non vi furono più tanti single”. Diana mi inquieta un po’, con quegli occhietti e il fucile in spalla, ma sa anche essere simpatica.
Entriamo nella mensa. Tutti mangiavano qui, in una grande sala con il parquet in legno, eleganti decorazioni, sedie in stile sovietico che oggi si venderebbero bene agli amanti del Vintage. Ci mangiavano fino a centocinquanta persone contemporaneamente. Un mosaico raffigura un antico dio nordico dalla lunga barba, circondato da orsi polari. Vecchi enormi macchinari nella grande cucina, c’è ancora un ricettario appoggiato.
Incredibile pensare alla vita in questo posto. C’era anche una scuola e un piccolo ospedale. Ma ciò che è davvero sorprendente sono le strutture di svago: una piscina monumentale, con tanto di podio, un grande campo da basket, una palestra. C’è persino un teatro, sul palco il pianoforte più a Nord del mondo. Un po’ scordato, ma riusciamo almeno a suonare due note (per dire: l’ho fatto). Infine c’è lui, Lenin. Guarda la piazza di fronte a sé, le renne non sono impaurite dalla nostra presenza e bruciano indisturbate. Laggiù in fondo un ghiacciaio monumentale, il Nordenskjoldbreen. Sono qui, scatto la foto più rappresentativa di Pyramiden.
Altro che abbandonata, c’è pure un negozio di souvenir. Non si capita spesso da queste parti, quindi compro volentieri (con la carta, grazie) una maglietta con scritto “Pyramiden: back in the ussr”. E mi sembra davvero di essere entrato, per un paio d’ore, in un’epoca ormai passata, ma ancora viva nella memoria, soprattutto quella russa.
Diana ci saluta, torniamo verso il Linden. Uno degli operai passa su una motocicletta e sorride. È tempo di ripartire. Goodbye, Lenin.
Enrico Peschiera
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