La diplomazia scientifica nell’Artico tra cambiamenti climatici, tensioni geopolitiche e inclusione delle conoscenze indigene: sfide e prospettive.
“Senza scienza non possiamo capire i cambiamenti nell’Artico e senza scienza non possiamo preparare il futuro. La scienza e la ricerca sull’Artico sono essenziali per fornire consigli basati su dati concreti ai processi decisionali”.
Le parole dell’ex commissario europeo per la ricerca Carlos Moedas, pronunciate in occasione della seconda Ministeriale della scienza artica, riflettono bene il ruolo fondamentale assunto dalla ricerca scientifica, che non solo è utile a comprendere i cambiamenti che la regione artica sta affrontando, ma contribuisce in maniera significativa a fornire risposte politiche alle sfide derivanti da simili cambiamenti.
Questo approccio – che coinvolge lo scambio di conoscenze scientifiche, la collaborazione nella ricerca e lo sviluppo tecnologico tra paesi, spesso mirando a risolvere problemi di natura globale come il cambiamento climatico – prende il nome di diplomazia scientifica. La definizione più accreditata di quest’espressione relativamente recente è stata sviluppata solo nel 2009 dall’American Association for the Advancement of Science e dalla Royal Society britannica, che hanno suddiviso questo concetto in tre dimensioni: scienza nella diplomazia, scienza per la diplomazia e diplomazia per la scienza.
Nella regione artica, la complementarietà di queste tre dimensioni sembra emergere con maggiore evidenza grazie al lavoro del Consiglio Artico. Composto da otto Stati membri, sei organizzazioni rappresentative dei popoli indigeni dell’Artico, Osservatori internazionali e sei Gruppi di lavoro, il Consiglio Artico costituisce un forum internazionale di alto livello che promuove la trasformazione della regione in un luogo di pace, stabilità e cooperazione costruttiva, volendo garantire la prosperità, la sostenibilità e la sicurezza della vita dei suoi abitanti.
Per poterci riuscire, in un contesto in cui il cambiamento climatico si manifesta con effetti amplificati rispetto al resto del mondo, l’impegno scientifico appare particolarmente significativo poiché proprio la scienza fornisce gli strumenti fondamentali per comprendere, monitorare e affrontare le gravi trasformazioni in corso. Nella regione artica, infatti, il riscaldamento globale accelera la fusione dei ghiacci, alterando i delicati equilibri ecologici, minacciando la biodiversità e mettendo a rischio le popolazioni indigene che dipendono dall’ambiente per la loro sopravvivenza.
Oltre a fornire un quadro di riferimento per leggere e interpretare i pericolosi cambiamenti in corso, che non sono tra l’altro destinati a restare confinati nella regione artica, la ricerca scientifica rappresenta anche uno degli strumenti attraverso i quali gli Stati Osservatori possono legittimare la propria presenza e i propri interessi nella regione. Un esempio, in tal senso, è rappresentato dalla Cina che, proiettando le sue ambizioni di potenza globale anche tra i ghiacci artici, ha fatto ricorso – tra le altre cose – ai suoi alti livelli di impegno scientifico per legittimare la sua rivendicazione di “Stato quasi artico”, autodefinizione che difficilmente si spiegherebbe considerando che i territori cinesi più settentrionali si trovano a una distanza di circa mille chilometri a sud rispetto al Circolo Polare Artico.
A promuovere un così assiduo impegno nella ricerca scientifica non è però la sola sete di conoscenza del governo di Pechino, ma anche e soprattutto la sua necessità di procurarsi nuove fonti di approvvigionamento energetico e garantirsi un posto in pole position all’apertura di più brevi rotte commerciali.
Pertanto, se la diplomazia scientifica si presenta come uno strumento efficace per promuovere la collaborazione internazionale e la comprensione reciproca fra Stati, non bisogna tuttavia trascurarne due aspetti altrettanto significativi. Il primo è che, almeno in talune circostanze, la diplomazia scientifica può celare interessi strategici e commerciali meno nobili. Il secondo è che sarebbe un errore di valutazione ritenere la diplomazia scientifica immune ai cambiamenti del contesto geopolitico internazionale, com’è stato purtroppo dimostrato dalle profonde ripercussioni che l’invasione russa dell’Ucraina ha generato sulla diplomazia scientifica artica, causando la sospensione di numerose attività di cooperazione con le istituzioni russe, precedentemente considerate essenziali per la raccolta dei dati scientifici.
La perdita di accesso ai dati dell’Artico russo, tuttavia, non dimostra solo quanto la diplomazia scientifica possa essere vulnerabile agli equilibri politici internazionali, ma costituisce anche una grave limitazione per la ricerca climatica internazionale, che ha visto interrompere o significativamente rallentare numerosi progetti scientifici proprio nel momento in cui agire – e farlo in fretta – diventa prioritario nella lotta alla crisi climatica.
A partire da febbraio 2022, dunque, la cooperazione scientifica con la Russia è stata in gran parte sospesa a livello istituzionale dagli Stati occidentali e le istituzioni finanziate dallo Stato russo sono state escluse dai progetti in corso. Sono proseguiti, al contrario, gli scambi individuali con i ricercatori russi, che sono considerati parte della società civile, garantendo la pubblicazione di ricerche e studi, condotti insieme ad altri colleghi.
Tuttavia, a causa della repressione subita dalla società civile in Russia, anche la comunicazione informale con i ricercatori ha subito numerose restrizioni oltre al fatto che può comportare gravi rischi, soprattutto per coloro che si sono apertamente posizionati contro la guerra di aggressione iniziata dalla Russia.
Quella appena descritta non è però l’unica conseguenza legata all’interruzione dei rapporti, di diplomazia scientifica e non, con la Confederazione russa. Fin dalla fine della Guerra Fredda, infatti, la cooperazione internazionale tra Russia e Occidente nella ricerca sull’Artico è stata un pilastro del cosiddetto “eccezionalismo artico”, concetto utilizzato per descrivere la costituzione e il mantenimento di relazioni internazionali pacifiche e cooperative all’interno della regione artica, apparentemente isolata dalle tensioni della geopolitica globale.
Un isolamento che però è stato bruscamente interrotto proprio dallo scoppio della guerra, che ha fatto perdere all’eccezionalismo artico buona parte della sua validità, contribuendo allo stesso tempo a dimostrare – qualora ce ne fosse bisogno – quanto scienza e politica siano in realtà intrecciate.
Un esempio di quanto accaduto nella regione artica a seguito della guerra in Ucraina è stata la temporanea sospensione delle 21 stazioni di ricerca in Russia facenti parte del progetto infrastrutturale INTERACT. Finanziato dall’Unione Europea, questo progetto ha come obiettivo principale quello di costruire la capacità di identificare, comprendere, prevedere e rispondere ai diversi cambiamenti ambientali in tutta l’ampia fascia ambientale e di utilizzo del territorio artico.
Obiettivo che viene perseguito attraverso una rete di 74 basi terrestri disseminate tra Europa settentrionale, Stati Uniti, Canada, Groenlandia, Islanda, Isole Faroe e Scozia, oltre a stazioni nelle aree alpine settentrionali. Insieme, le stazioni ospitano ogni anno più di 15.000 scienziati, producono dati per oltre 150 reti internazionali, costituiscono importanti ponti tra gli Stati artici e raggiungono milioni di persone attraverso attività di sensibilizzazione ed educazione.
Un altro aspetto fondamentale della diplomazia scientifica artica riguarda la parziale inclusione delle conoscenze ecologiche indigene, tradizionalmente escluse dal perimetro delle conoscenze “ufficiali” riconosciute dai consessi internazionali. Eppure, le conoscenze ecologiche tradizionali dei popoli indigeni non solo rappresentano un patrimonio culturale da valorizzare, ma hanno dimostrato in molte occasioni la loro utilità pratica per affrontare le sfide ambientali.
Un esempio concreto è dato dal lavoro del Gwich’in Council International, che ha offerto preziosi contributi alla ricerca sulla gestione degli incendi selvaggi, collaborando attivamente con i gruppi di lavoro del Consiglio Artico sulla conservazione della biodiversità e sulla gestione delle emergenze. L’esclusione sistematica delle conoscenze indigene non rappresenta soltanto un limite epistemico, ma costituisce anche una questione di giustizia strutturale e una sfida alla sovranità e all’autodeterminazione dei popoli indigeni.
Solo una diplomazia scientifica capace di integrare saperi diversi, riconoscendo pari dignità alle conoscenze indigene e alla ricerca accademica, potrà affrontare in modo efficace le sfide globali che si manifestano con forza all’interno dell’Artico. In un contesto internazionale segnato da tensioni e competizioni strategiche, scegliere la via dell’inclusione, della cooperazione e della conoscenza condivisa rappresenta l’unica strada per salvaguardare il futuro della regione e, con essa, il futuro dell’intero pianeta.
Virgilia De Cicco
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