Il Parlamento Europeo ha adottato una risoluzione che si oppone alla controversa decisione della Norvegia di aprire all’esplorazione dei fondali marini per l’estrazione mineraria.
Lo scorso 9 gennaio la Norvegia è stato il primo Paese al mondo a dare via libera all’esplorazione delle profondità marine per cercare metalli critici, come cobalto e zinco, che troverebbero largo uso in tecnologie chiave per la transizione ecologica.
L’ultimo esempio delle grandi contraddizioni imputabili al Paese nordico? La Norvegia è campione di rinnovabili e quarto produttore al mondo di gas, promotore di una governance responsabile degli oceani (presidente dell’Ocean Panel) e ora pioniere di una “corsa all’oro” che – secondo molti – non ci possiamo permettere.
“Il tema dell’estrazione mineraria nelle acque profonde (in inglese deep-sea mining) non è recente, ma è grazie alla vicenda norvegese che ha “bucato la bolla delle istituzioni” ed è entrato nel dibattito pubblico, racconta Adele Zaini, ricercatrice in Ecological Climatology presso il Center for International Climate Research (CICERO) ad Oslo, divulgatrice scientifica e attivista per il clima, che ha seguito la vicenda in loco.
Quando nell’hype attorno al deep-sea mining stava crescendo pericolosamente, gli stati insulari di Fiji e Palau (al largo delle cui coste si trova un’area estremamente ricca di metalli critici, la Clarion Clipperton Zone) si erano mobilitati per ottenere una moratoria contro la nascente industria.
Da allora 24 Stati hanno assunto posizioni più o meno radicali – dal precauzionismo al divieto assoluto – contro questa pratica. Poi è arrivata la proposta della Norvegia. E adesso la risposta dell’Unione Europea.
La comunità scientifica aveva già espresso un messaggio chiaro in una lettera firmata da più di 800 esperti provenienti da 44 diversi Paesi: non conosciamo a sufficienza questi preziosi ecosistemi per comprendere i rischi di operazioni estrattive. Secondo il Norway Institute of Marine Research (IMR) servirebbero dai 5 ai 10 anni di ricerca per farsi un’idea.
E invece cosa sappiamo? Sappiamo che gli studi preliminari per la proposta norvegese sono stati svolti su un’area limitata ma poi applicati a 280,000 km di fondali. Sappiamo anche che i fondali di quest’area dell’Artico hanno stoccato immense quantità di carbonio (e che potrebbero rilasciarle). Abbiamo già appurato che l’esplorazione per il deep-sea mining danneggerebbe specie critiche per i cicli biologici del carbonio. Insomma, sappiamo che non è una buona idea.
La proposta originale parlava di “esplorazione e sfruttamento”. Il testo approvato dopo la seconda votazione di gennaio invece parla solo di esplorazione. Una vittoria parziale – ma rilevante – resa possibile dalla pressione della società civile internazionale e del mondo dell’attivismo con gruppi come Greenpeace, WWFcon la No Deep Seabed Mining Initiative, Avaaz e personalità come Camille Étienne, Anne-Sophie Roux e Lucas Bravo in prima fila.
Non solo. A novembre era già arrivato un segnale forte anche dal mondo istituzionale sotto forma di una lettera aperta firmata da 120 legislatori dell’Unione Europea.
“La transizione non può essere usata come giustificazione per danneggiare la biodiversità e la più grande riserva di carbonio del mondo, soprattutto dal momento che esistono delle alternative”, si legge nel messaggio al Parlamento norvegese.
Insomma, tanto il governo norvegese quanto le maggiori società dell’industria (vedi The Metals Company) avevano capito che non tirava una buona aria a Strasburgo. Per questo il primo ministro Jonas Gahr Støre scrisse personalmente alla Presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen sottolineando che ogni permesso di estrazione sarebbe stato condizionato agli esiti di rigorose valutazioni.
Il Parlamento europeo si è espresso con larghissima maggioranza contro la precedente decisione della Norvegia che – ricordiamolo – non è membro dell’Unione, ma non per questo immune a un segnale simile.
Adele Zaini era tra la folla riunitasi fuori dal Parlamento norvegese il 9 gennaio. Portava un cartello che recitava “History repeats itself: yesterday was oil, today is minerals. When do we learn?” (“La storia si ripete: ieri era il petrolio, oggi sono i minerali. Quando impareremo?”).
La logica che sottende l’osteggiata decisione della Norvegia richiama infatti lo sfruttamento irrazionale dei combustibili fossili all’origine dell’attuale crisi climatica. Una logica basata sull’estrattivismo, ovvero quel modello di produzione alimentato dall’estrazione delle risorse alla ricerca del profitto infinito senza metterne a fattore gli impatti ambientali e sociali.
Si cerca di risolvere un problema provocato dal modello lineare “prendo-uso-butto” applicando lo stesso modello alla produzione di tecnologie per la transizione. Mentre quello di cui abbiamo bisogno, sottolinea Adele Zaini, è proprio un “cambio di paradigma”.
Un nuovo approccio che “Anziché ricorrere a rimedi affrettati che ricadono nelle stesse dinamiche dannose, parta dalla comprensione dei limiti fisici del pianeta e disegni soluzioni entro tali limiti, ispirandosi alle dinamiche degli ecosistemi naturali (nature based solutions) e accogliendo quindi la sfida di un uso circolare delle risorse”, continua Zaini.
Questa industria emergente non sarebbe quindi solo dannosa, ma anche potenzialmente superflua. “Un nuovo business che potrebbe morire ancora prima di nascere”, avvisa Zaini. L’Environmental Justice Foundation ha pubblicato un report secondo cui la domanda per questi preziosi metalli potrebbe essere ridotta del 58% entro il 2050 grazie allo sviluppo di nuove tecnologie e di filiere circolari imperniate sul riciclo. Tra l’altro c’è anche chi sta imparando a farne a meno, come Tesla.
A fronte di queste previsioni il bisogno di sfruttamento dei fondali marini viene meno, soprattutto considerando che richiederebbe ingenti investimenti (i quali potrebbero essere reindirizzati verso altre forme di innovazione) oltre a causare impatti potenzialmente devastanti sugli ecosistemi marini.
Siamo ancora in tempo per decidere di non aprire questa porta appena socchiusa. I detrattori del deep-sea mining non hanno intenzione di fermarsi finché non sarà sigillata. “L’onda delle proteste contro il deep-sea mining è solo cominciata”, ha dichiarato Frode Pleym, presidente di Greenpeace Norway.
Annalisa Gozzi
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