Acqua & terra

L’agricoltura polare per l’autosufficienza alimentare artica

Tecnologia e particolari tecniche di coltivazione possono aiutare le popolazioni artiche a raggiungere l’auto-sufficienza alimentare.

Scoperte e bandiere

Il 6 aprile del 1909 l’ufficiale di Marina statunitense Robert Peary conficcò nel suolo ghiacciato del Polo Nord la bandiera americana. Preso dall’entusiasmo Peary non tardò a darne notizia tramite cablogramma al Presidente degli Stati Uniti Howard Taft, così scrivendo: “Have the onor to place North Pole at your disposal”.

Ma la risposta del Presidente Taft fu secca: “Thank you for your generous offer, I do not know exactly  what I could do with it”. Lisa Bloom, nel suo libro “Gender on ice: American Ideologies of Polar Expeditions“, motiva questo disinteresse ipotizzando che Taft avesse percepito che la scoperta del Polo Nord rappresentava maggiormente un evento appannaggio della moderna tecnologia scientificamente validata e della comunicazione mediatica.

Due ambiti estranei all’autorità presidenziale. La risposta di Taft probabilmente non sarebbe condivisa da molti capi di Stato e di Governo mondiali attuali, per i quali l’Artico non è solo terra di esplorazione.

Coltivare nel ghiaccio

Ma al di là delle moderne concezioni che investono il Polo Nord, il “no grazie” del Presidente Taft cela l’evolversi di una concezione dell’Artico. Oggi infatti la regione viene vista sotto un’altra luce: dominata dal progresso tecnologico e attenta alla conservazione dell’ecosistema polare, adattando l’innovazione a un ambiente piuttosto ostile.

E il settore agricolo può dare dimostrazione dell’efficienza tecnologica adattata al “demanding environment” artico. La domanda viene spontanea: è possibile coltivare in Artico?

Locals at work in Iqaluit’s community greenhouse, where summer temps can still drop below zero.
Fonte: www.modernfarmer.com/2013/10/arctic-farming/

Il riscaldamento globale cede ormai per periodi sempre più lunghi aree in cui lo strato superficiale del permafrost è sciolto, condizione necessaria per la conversione del suolo gelido artico o sub artico in terreno coltivabile. 

L’agricoltura è uno dei settori più colpiti dal riscaldamento globale, oltre ad essere il primo per emissioni di CO2.  Le ultime stime della FAO sullo stato dell’agricoltura descrivono una situazione drammatica.

La diminuzione delle scorte d’acqua dolce e l’aumento crescente della popolazione mondiale sono solo due delle cause principali che “allontanano” l’offerta di food commodities dalla domanda. I costi della distribuzione, poi, rendono i prodotti venduti nei supermercati delle regioni polari, quasi inaccessibili. Per questo motivo, nel Nunavut, 4 chili di patate o una busta di mele e arance  possono anche costare anche 17 dollari.

Auto-sufficienza e nuove economie

I popoli della neve cominciano così a percepire che per la loro sopravvivenza è necessario rendersi autonomi dal mercato globale dei prodotti agricoli. L’esigenza di creare un “Self Sufficient Arctic” inizia da qui, dalla lotta all’insicurezza alimentare. Dalla capacità di adattarsi al riscaldamento globale e dalla necessità di coltivare, così da non dipendere più totalmente dalle importazioni di cibo.

Potrebbe sembrare una storia a lieto fine, nella quale l’uomo al servizio dell’ambiente mostra la sua capacità di “resilienza”, ma in realtà rendere l’Artico verde non è una buona soluzione. Oggi molti territori dell’Emisfero Nord sono destinati alla coltivazione intensiva, una tecnica che rende maggiormente l’agricoltura responsabile di emissioni di CO2.

Artico verde significa, dunque, Artico più blu. Eppure, un’agricoltura sostenibile è sempre possibile. Anche all’estremo Nord. Lo garantiscono tecnologia e uomini al servizio dell’ambiente. Da questo punto di vista, molte comunità polari insegnano la vita nel rispetto della Terra che ci ospita. Terre di ghiaccio o terre di grano?

Tecniche e scienza a confronto

Per la loro composizione e caratteristiche, le terre artiche e sub artiche non possono essere arabili in alcun modo. Il permafrost, che ricopre circa 23 milioni di km2 delle regioni a Nord dell’emisfero, “impermeabilizza” il suolo rendendolo scarsamente fertile e drenante. 

Taiga e tundra non offrono un terreno da addomesticare per ricavarne orti e interminabili campi di grano. Ma la terra polare è anche un importante serbatoio di carbonio, costituito da resti di animali, piante e microbi accumulati nel suolo ghiacciato per centinaia o migliaia di anni.

Secondo un report del 2019 dell’Arctic Programme le regioni coperte dal permafrost contengono tra 1460-1600 miliardi di tonnellate di carbonio organico, circa il doppio di quello attualmente presente in atmosfera. Tuttavia, l’impermeabilità del permafrost è ormai messa a dura prova dal riscaldamento globale.

L’aumento delle temperature non solo prolunga la durata stagionale dello scioglimento del permafrost ma, al contempo, trasforma il suolo polare da serbatoio di carbonio a fonte di emissione di CO2. 

Coltivare il suolo ghiacciato

Lo strato superficiale del permafrost, che durante i mesi lascia spazio alla piccola vegetazione come erba, cotone e papaveri artici, è molto sensibile all’aumento delle temperature ed il suo scioglimento concede ai residenti di coltivare il suolo.

In questo modo, un’esternalità negativa indotta dal riscaldamento globale diventa positiva, fornendo ai locali un modo “resiliente” di adattarsi agli aumenti di temperatura. Ma fino a che punto è legittimo adattarsi al cambiamento climatico? 

Quella del permafrost sciolto e adibito ad orto è ormai un’immagine molto diffusa tra Alaska e Canada, dove i residenti devono lottare con una diffusa situazione di insicurezza alimentare. I popoli artici dipendono per la loro alimentazione dalle importazioni.

Ma i prezzi applicati sui prodotti venduti dai supermercati rendono sempre più difficile, man mano che i costi per i trasporti aumentano, l’accesso ai cibi “non autoctoni”. 

Il problema dello stoccaggio

Inoltre, le condizioni meteorologiche non sempre favorevoli generano ritardi nell’approvvigionamento, causando carenza di scorte nei magazzini e deterioramento della qualità del cibo trasportato. Da queste preoccupanti circostanze di “routine” nasce la consapevolezza dei popoli artici di dover rendersi autosufficienti.

L’espansione e l’intensificazione dell’agricoltura nelle regioni artiche e sub artiche rappresentano il forte spirito di adattamento delle comunità locali di fronte al riscaldamento globale. Lo scopo non è solo quello di rendersi autonomi dalle importazioni di cibo, ma anche, secondo una proiezione più a lungo termine, sostenere la produzione delle food commodities a livello globale.

L’ultimo report della FAO sullo Stato dell’agricoltura e dell’alimentazione globale (SOFA) descrive una situazione preoccupante, nella quale siamo ben lontani dalla fine della fame nel mondo entro il 2030. La popolazione mondiale arriverà, secondo le previsioni, entro il 2050 ad aumentare più di un terzo. Questo rende l’offerta delle food commodities sempre meno adeguata alla domanda. La produzione di cibo è inoltre attualmente minacciata dalla scarsità di acqua.

Il report FAO indica che circa 3.2 miliardi di persone che vivono in aree coltivabili non hanno riserve d’acqua sufficienti per l’uso personale e per l’irrigazione. Come può allora l’Artico costituire una soluzione alla carenza di produzione di cibo a livello locale e globale? Diventando produttore di quelle commodities che solitamente importa. 

I tempi dei cambiamento

Questa soluzione originale, richiederà lunghi tempi, ma i primi segni sono già visibili. Diverse persone all’interno delle comunità artiche sfruttano lo scioglimento dello strato attivo del permafrost, e adibiscono suoli poco fertili o drenanti della taiga e della tundra come il podzol, gelisol e cryosol a terreni coltivabili. 

Ancora, segni più evidenti di questa particolare transizione nella produzione da Emisfero Sud a Emisfero Nord sono visibili nella Federazione russa, dove il calo di produzione di cereali che ha interessato le regioni più a sud – a causa della siccità – potrà essere compensato dalle coltivazioni delle terre poste a ridosso del Circolo Polare Artico

Ad esempio, dal 2018 il governo della provincia canadese di Newfoundland ha promosso la coltivazione della soia. Nel 2017  in Alaska la produzione di orzo ha subito un forte incremento rispetto agli anni precedenti. Ancora più significativa è la proiezione che uno studio pubblicato su Frontiers in Sustainable Food System fa per il mais, prevedendone un aumento di oltre il 50% a partire dal 2100.

Ma le nuove frontiere dell’agricoltura tra renne, caribù, orsi, muschi e licheni ha un importante costo per l’ambiente di cui attualmente si tiene poco conto. 

Agricoltura vs. equilibrio del sistema?

Modificare l’uso delle terre artiche e sub artiche può rivelarsi più problema che soluzione. Sfruttare il permafrost sciolto impiantando un orto significa aumentarne la capacità di rilascio in atmosfera di carbonio e metano. Inoltre, la conversione da ghiaccio a grano altera la composizione chimica-organica del suolo, provocandone l’instabilità. 

La conversione della taiga e della tundra non costituisce una pratica agricola sostenibile. Ad esempio il podzol tipico delle foreste boreali è un suolo con PH acido. Per cui, la sua nuova destinazione d’uso può richiedere interventi mediante fertilizzanti a base di azoto per l’arricchimento del terreno, che vanno a detrimento dell’ecosistema.

Anche tenere sotto controllo il permafrost per evitare che la terra si ricongeli, richiede attenta manutenzione. Esistono utili consigli su come “inverdire” la  tundra, un procedimento che, talvolta, può richiedere l’uso della calce per neutralizzarne l’acidità derivata dal muschio.

Punti di vista contrastanti

Se da un lato l’inverdimento dell’Artico indotto dal riscaldamento globale, può costituire un punto di forza e di partenza per la lotta all’insicurezza alimentare (non solo locale ma anche globale), dall’altro bisogna necessariamente riconoscere il pericolo che questo rilancio sociale ed economico può rappresentare per l’ambiente.

Diverse policies locali supportano la conversione delle foreste boreali in terreni coltivati, giustificandola con la necessità di un Artico auto sufficiente e resiliente. Ma quando per contrastare il cambiamento climatico si prescinde dall’ambiente e si contribuisce alla sua degradazione, la resilienza diventa solo un termine abusato.

L’intensificazione e l’espansione dell’agricoltura nell’Emisfero Nord, per quanto soluzioni convincenti per la ripresa dell’offerta di food commodities e per il benessere delle popolazioni polari, non potranno mai essere una win-win strategy ma solo un modo di esasperare ed esaurire la Terra.

Soluzioni polari sostenibili

Se l’Artico verde non è una strategia convincente di adattamento al cambiamento climatico, come risolvere il problema di insicurezza alimentare che minaccia le comunità polari? È possibile rendere queste regioni meno dipendenti dalle importazioni senza degradare l’ambiente?

Pensare che i popoli della neve possano salvare il mercato globale delle food commodities è forse utopico, ma immaginare un Artico meno dipendente dalle importazioni di cibo è possibile. E soprattutto, sostenibile. La soluzione è offerta da pratiche agricole che non richiedono l’uso del suolo artico grazie alla tecnologia. Alcuni esempi aiuteranno a capire.

Il Global Seed Vault alle isole Svalbard

Le isole Svalbard dimostrano come sia possibile avere prodotti freschi a km 0. La terra che ospita il Global Seed Vault è anche quella dipendente al 100% dalle importazioni di cibo e dagli impianti di carbone per energia e riscaldamento. Ma è anche la terra natia di un progetto di agricoltura sostenibile: la permacoltura polare. 

Questo tipo di coltivazione nasce dall’idea di Benjamin Vidmar, uno chef americano che vive e lavora a Longyearbyen, la città più settentrionale del mondo. Dal 2016 Vidmar ha iniziato a coltivare ortaggi, verdura e frutta fresca, ricreando l’habitat naturale per la crescita delle piante, in ambienti sia interni che esterni.

Nei mesi estivi, da maggio a settembre, la coltivazione avviene all’interno di  una cupola geodesica, una particolare serra a forma di igloo. Questa serra riesce a mantenere una temperatura costante interna di 25° utilizzando solo energia solare. Quando la luce solare abbandona le isole Svalbard, durante la lunga notte polare, un impianto di luci Led all’interno di un “polar garden”, un fabbricato adibito a laboratorio, si occupa della crescita rigogliosa di piante come basilico, piselli, carote, pomodori, lattuga e patate.

Lo scopo dello chef Vidmar non è solo quello di dimostrare che è possibile avere cibo di qualità anche in condizioni estreme, ma anche mettere in atto un meccanismo di economia circolare, dove quasi tutto può essere riutilizzato.

Nel suo particolare progetto a filiera corta, Benjamin munisce di prodotti freschi alberghi, ristoranti e privati dai quali preleva, ad ogni consegna, il materiale organico di scarto della fornitura precedente, per utilizzarlo come compost o fertilizzante. 

In serra al Polo Nord

La permacoltura in serra si sta diffondendo anche in altre zone dell’Artico. La compagnia canadese no-profit Green iglu fornisce ormai da qualche anno cupole geodesiche ad energia solare alle comunità che vivono nel Nunavut, per sostenerle nella lotta all’insicurezza alimentare e garantire equo accesso a cibo di qualità.

All’interno delle serre le piante vengono fatte crescere in “torri idroponiche”. Come la permacoltura, l’idroponica è un’altra pratica agricola sostenibile che non prevede l’uso di terreno ma di soluzioni a base di acqua. La coltivazione in serra mediante idroponica verticale offre molti vantaggi, tra cui quali la necessità di poco spazio e maggiore velocità nella maturazione e produzione delle piante rispetto alle tradizionali colture in terreno.  

Le esperienze appena citate illustrano come la tecnologia possa essere d’aiuto in Artico per provare a risolvere, almeno localmente, i problemi legati al riscaldamento globale e all’insicurezza alimentare. La diffusione di questi sistemi va sostenuta, la cupola geodesica senza attività umana non potrebbe funzionare.

Il coinvolgimento di stakeholders locali, soprattutto dei cittadini, è molto importante per la realizzazione di questi progetti. Ma non è sempre facile attirare l’attenzione. 

Sebbene nel tempo diversi studi abbiano dimostrato gli effetti benefici che il consumo di carne tradizionale e di verdura hanno avuto su parte della popolazione adulta Inuit, non tutte le comunità indigene sono interessate a questo tipo di cibo.

La percezione diffusa è quella “it’s not for me”, essendo gli Inuit un popolo la cui dieta si fonda sul consumo di carne. È difficile convincere una comunità di cacciatori a coltivare in serra e mettere più insalata a tavola. Ma molti volontari che si occupano delle relazioni con i rappresentanti delle comunità indigene canadesi riescono ad ottenere la loro attenzione spiegando che la coltivazione in serra può renderli autonomi e soprattutto ridurre i costi di vita.

Il dialogo con le popolazioni locali può rendere l’agricoltura in serra un’ottima alleata dell’educazione alimentare, capace di interrompere il processo di transizione, indotto dal cambiamento climatico, dai cibi tradizionali a quelli confezionati proposti dai supermercati. 

L’agricoltura polare è una realtà che spiega l’importanza del rispetto per l’ambiente per ottenere una qualità di vita migliore. Conoscere la propria terra e non abusarne è oggi un know-how necessario al benessere globale. Care for the Earth. Care for the people. Return of surplus. 

Anna Chiara Iovane

Osservatorio Artico © Tutti i diritti riservati

Anna Chiara Iovane

Laureata in Giurisprudenza e in Relazioni Internazionali presso l'Università degli Studi di Napoli Federico II. Da sempre sono appassionata alle tematiche relative all'ambiente e allo sviluppo sostenibile, cerco di comunicare il fascino che l'Artico suscita in me consapevole della necessità di trovare soluzioni per tutelare il suo ecosistema.

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