Il porto di Nome. Fonte: www.nomealaska.org
Parte dallo scalo di Nome, in Alaska, il progetto di ammodernamento delle infrastrutture marittime statunitensi che guardano al Mar Glaciale Artico.
Negli ultimi anni l’interesse geopolitico per l’Artico è cresciuto in maniera esponenziale, alimentato dai cambiamenti climatici, dall’apertura di nuove rotte marittime e dalla competizione strategica tra Russia, Cina e Stati Uniti. In questo scenario, Washington ha deciso di rafforzare la propria presenza nell’Artico affidando al Corpo degli Ingegneri dell’Esercito (USACE) un contratto da 399 milioni di dollari per la prima fase di ampliamento del porto di Nome, in Alaska.
L’obiettivo è trasformare lo scalo in un porto profondo, in grado di ospitare unità della Guardia Costiera, rompighiaccio pesanti e navi commerciali di grandi dimensioni, consolidando la capacità operativa americana in una regione divenuta ormai cruciale. Nome, situata a circa 160 chilometri dallo Stretto di Bering e poco sotto il Circolo Polare Artico, rappresenta una posizione strategica per le operazioni navali. Attualmente, però, il bacino offre un pescaggio limitato a 5,5 metri, insufficiente per la maggior parte delle imbarcazioni militari e mercantili.
Il progetto in corso prevede di portare la profondità a circa 12 metri, costruire nuove banchine e moli, e dotare così la costa occidentale dell’Alaska di un’infrastruttura capace di accogliere anche i futuri Polar Security Cutter. Una volta completata l’opera, gli Stati Uniti ridurranno la dipendenza dalla lontana base di Seattle, distante quasi 3.350 chilometri, guadagnando tempi di risposta molto più rapidi.
La prima fase dei lavori, finanziata attraverso l’Infrastructure Investment and Jobs Act del 2021, comprende la costruzione di una diga foranea lunga circa 365 metri e un nuovo ormeggio. In seguito, sarà la volta di interventi di dragaggio su larga scala, messi a gara separatamente, per completare l’espansione dello scalo.
Secondo il colonnello Jeffrey Palazzini, comandante del distretto Alaska dell’USACE, un porto più efficiente sarà essenziale non solo per la sicurezza nazionale, ma anche per la sostenibilità economica delle comunità locali, che spesso devono affrontare costi elevati e difficoltà logistiche legate all’isolamento della regione.
Il rafforzamento di Nome si inserisce in un quadro più ampio di strategie statunitensi sull’Artico. La modernizzazione delle infrastrutture portuali, l’acquisizione di nuovi rompighiaccio e il miglioramento delle capacità logistiche figurano tra le priorità fissate dal Congresso attraverso il National Defense Authorization Act. L’investimento, dunque, non riguarda esclusivamente la dimensione militare. Un porto profondo rappresenta anche un catalizzatore per lo shipping, in un contesto in cui lo scioglimento dei ghiacci sta estendendo progressivamente le stagioni navigabili e aprendo nuove opportunità per il trasporto marittimo di merci, energia e turismo.
Non mancano le criticità. Le operazioni di dragaggio e le nuove costruzioni rischiano di avere un impatto sugli ecosistemi marini e sulle attività tradizionali delle comunità indigene, che temono conseguenze per la pesca e per l’equilibrio ambientale. Anche la manutenzione a lungo termine pone sfide significative: mantenere la profondità del porto richiederà costanti interventi e ingenti risorse economiche.
L’espansione di Nome appare come una scommessa di lungo periodo. Da un lato è la risposta concreta degli Stati Uniti alla crescente concorrenza internazionale nell’Artico. Dall’altro, è un banco di prova per capire se sicurezza nazionale, esigenze economiche e tutela ambientale possano convivere in uno dei territori più delicati e vulnerabili del pianeta.
Leonardo Parigi
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