Dal conflitto sul Coastal GasLink al ruolo del governo canadese, la seconda parte dell’inchiesta ricostruisce l’impatto politico e sociale dei progetti LNG in Columbia Britannica tra opposizioni indigene, incentivi pubblici e promesse di sostenibilità.
Nella prima parte di questa inchiesta abbiamo analizzato i flussi di finanziamento verso il settore fossile da parte delle principali banche canadesi, con particolare attenzione ai progetti LNG in Columbia Britannica e al crescente scarto tra retorica ESG e azioni effettive. La questione, però, non si esaurisce qui. Le stesse infrastrutture sostenute da tali investimenti (Cedar LNG, Woodfibre LNG e Coastal GasLink) si collocano in territori complessi, dove le decisioni industriali incontrano forme di forte opposizione.
Questa seconda parte si concentra sugli impatti politici e sociali dei progetti energetici in corso, mettendo a fuoco le resistenze indigene, il coinvolgimento dello Stato e l’evoluzione delle strategie comunicative adottate dalle banche e dalle aziende per presentare il GNL come parte della transizione ecologica.
Il gasdotto Coastal GasLink non ha incontrato resistenze solo da parte di gruppi ambientalisti, ma è diventato sin dalle sue prime fasi un simbolo del conflitto aperto tra grandi progetti industriali e autodeterminazione indigena. Le tensioni si sono concentrate in particolare sul territorio tradizionale della Wet’suwet’en Nation, attraversato da un lungo tratto della conduttura.
Sebbene alcune band council e rappresentanze locali abbiano firmato accordi con l’azienda promotrice, i capi ereditari della nazione si sono sempre opposti alla costruzione del gasdotto, sostenendo che il progetto non dispone del consenso libero, previo e informato richiesto dal diritto internazionale. I band council sono organismi eletti previsti dall’Indian Act canadese, con autorità limitata alle riserve ufficialmente riconosciute. I capi ereditari, invece, esercitano il potere secondo il sistema tradizionale di governo della Wet’suwet’en Nation, basato su linee di discendenza e riconosciuto dalla giurisprudenza canadese come legittima espressione della sovranità indigena sui territori non ceduti.
Questa frattura interna alla governance indigena, tra autorità elettive e tradizionali, ha avuto conseguenze dirette anche al caso pratico. Le autorizzazioni ottenute dalla compagnia promotrice non sono bastate a garantire un “vero” consenso né, tantomeno, a evitare il conflitto. La decisione di proseguire i lavori nonostante l’opposizione dei capi ereditari ha infatti generato una reazione che negli anni ha assunto forme sempre più organizzate e visibili.
Tra il 2019 e il 2023, la Royal Canadian Mounted Police ha effettuato almeno quattro incursioni su vasta scala nei siti di protesta, in corrispondenza delle principali fasi di avanzamento dei lavori del gasdotto. Gli interventi si sono concentrati in particolare nelle aree di blocco e presidio controllate dai capi ereditari, come Unist’ot’en e Gidimt’en Camp.
In totale, sono state arrestate circa settanta persone, tra cui attivisti pacifici, anziani e matriarche. Le operazioni di polizia, spesso pesantemente militarizzate (sono stati impiegati elicotteri, unità cinofile e truppe con equipaggiamento d’assalto) hanno suscitato forti critiche da parte di Amnesty International e di diverse organizzazioni per i diritti umani, che le hanno definite esempi evidenti di criminalizzazione della protesta indigena.
Quello che si è consumato sul territorio non è solo uno scontro tra attivismo e interessi industriali, ma anche il riflesso di una cornice istituzionale che, nonostante i continui riferimenti ai diritti delle First Nations, continua a privilegiare lo sviluppo delle grandi opere. Per capire come sia stato possibile procedere nella costruzione dei progetti energetici di cui stiamo discutendo, nonostante opposizioni così forti e visibili, occorre esaminare più da vicino il ruolo giocato dal governo canadese, sia a livello federale sia provinciale.
Nonostante l’intensificarsi delle proteste e la crescente attenzione pubblica, sia il governo federale sia quello della Columbia Britannica hanno continuato a sostenere l’espansione del GNL. A livello provinciale, il sostegno si è tradotto in autorizzazioni rapide, agevolazioni fiscali, incentivi diretti e partnership pubbliche con le compagnie coinvolte nei progetti. In particolare, il governo della British Columbia ha rivendicato la centralità del GNL nella sua strategia di crescita verde, sostenendo che l’esportazione verso i mercati asiatici può contribuire a ridurre le emissioni globali, andando a sostituire il carbone.
Sul piano federale, invece, l’attenzione si è concentrata soprattutto sugli aspetti diplomatici e commerciali. Il governo canadese ha promosso l’offerta nazionale di gas naturale liquefatto in sede internazionale, presentando le proprie risorse come un’alternativa “affidabile” e “pulita” a quelle russe, soprattutto dopo lo scoppio del conflitto in Ucraina. Incontri con delegazioni giapponesi e tedesche, dichiarazioni pubbliche del primo ministro Trudeau e visite istituzionali negli impianti di estrazione e lavorazione hanno sostenuto una narrazione basata sulla sicurezza energetica e sulla diversificazione degli approvvigionamenti.
Nonostante questo impegno, restano dubbi sulla coerenza tra il sostegno al GNL e gli obiettivi climatici del Canada. Il governo continua a parlare di Net Zero entro il 2050, ma, ancora una volta, le scelte politiche e gli investimenti pubblici sembrano andare in senso opposto.
Parallelamente alla realizzazione delle infrastrutture, le aziende promotrici e le banche hanno investito in una strategia comunicativa volta a rappresentare i progetti GNL non come parte del problema climatico, ma come una possibile soluzione dello stesso. Nei comunicati stampa, nelle dichiarazioni ufficiali e nei rapporti sulla sostenibilità sono identificabili formule ricorrenti: “transizione ordinata” (orderly transition), “infrastrutture a basse emissioni”(low-emitting facilities) e, in generale, “energia per un futuro pulito”. Parole che sembrano dimostrare responsabilità e visione a lungo termine ma che appaiono spesso scollegate dagli impatti reali dei progetti.
Tra le argomentazioni più ricorrenti, figura anche l’enfasi sul coinvolgimento delle First Nations. Cedar LNG, in particolare, viene promosso come progetto “guidato dagli indigeni” grazie alla partecipazione della Haisla Nation, che ne detiene la quota di maggioranza. Questa impostazione ha quindi consentito a Pembina Pipeline di presentare l’impianto come esempio di partnership etica e inclusiva.
Tuttavia, sottolineare con tanta insistenza il fatto che Cedar LNG è “guidato dagli indigeni” può essere fuorviante. Certo, la Haisla Nation detiene il 50,1 % delle quote, ma questo modello non rappresenta la posizione di tutte le comunità indigene coinvolte nella zona. La Wet’suwet’en Nation, ancora una volta, si oppone infatti proprio al gasdotto che andrà a rifornire anche Cedar LNG. Proporre un quadro in cui l’insieme degli “indigeni” è compatto o favorevole sminuisce le tensioni interne e permette una narrazione semplificata e selettiva.
Nonostante le promesse di sostenibilità e i richiami al coinvolgimento delle comunità indigene, quindi, l’espansione del settore GNL in Columbia Britannica continua a poggiare su molte controversie. Le fratture interne alle First Nations, la repressione delle proteste da parte delle autorità e il sostegno pubblico a progetti ad alto impatto ambientale mostrano una realtà molto diversa da quella dei comunicati ufficiali. In più punti, la gestione delle decisioni e del dissenso sembra riproporre meccanismi tipici del passato coloniale del Paese: l’esclusione di alcune voci indigene, la marginalizzazione dei sistemi tradizionali di governance e la persistenza di una logica estrattiva centrata sul profitto e sul controllo del territorio.
Le tensioni emerse attorno al Coastal GasLink e alle infrastrutture a esso connesse non sono un’eccezione quanto piuttosto un vero e proprio sintomo di un modello che continua a privilegiare lo sviluppo industriale, ignorando l’opposizione di chi in quei territori riconosce la propria patria ancestrale.
Tommaso Bontempi
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