Canada

Le banche canadesi dal greenwashing al fracking

Cinque grandi banche canadesi hanno finanziato nel 2024 alcuni dei progetti fossili più rilevanti del Paese, in aperto contrasto con gli obiettivi ambientali da tempo annunciati.

Un fiume di gas

Nel 2024, le principali banche canadesi hanno destinato miliardi di dollari a nuovi progetti legati ai combustibili fossili, pur continuando a dichiarare pubblicamente il loro impegno verso criteri ambientali, sociali e di governance (ESG). I dati mostrano un netto incremento nei finanziamenti destinati a infrastrutture per la produzione e l’esportazione di gas naturale liquefatto (GNL) e di shale gas (gas da argille) nella Columbia Britannica, una regione che negli ultimi anni è diventata uno dei principali teatri del dibattito nazionale sulla transizione energetica e sui diritti delle popolazioni indigene.

Tre progetti in particolare si distinguono per portata e visibilità: il terminale Cedar LNG a Kitimat, l’impianto Woodfibre LNG nei pressi di Squamish e il gasdotto Coastal GasLink, che collega i giacimenti dell’entroterra alle coste del Pacifico. Tutti e tre sono stati oggetto di forti critiche da parte di gruppi ambientalisti e rappresentanti delle First Nations, soprattutto per la loro localizzazione su territori tradizionali non ceduti.

Si definiscono “non ceduti” quei territori che non sono mai stati oggetto di trattati con il governo canadese, che le popolazioni indigene continuano a rivendicare come parte integrante della propria giurisdizione tradizionale. In molti casi, questi spazi, che restano centrali per l’identità e le pratiche culturali delle comunità che li abitano, non coincidono con le riserve riconosciute ufficialmente.

Dalle promesse climatiche al “grande esodo”

Nel 2021, su impulso dell’iniziativa ONU per la finanza sostenibile, decine di grandi istituti bancari internazionali avevano aderito alla Net-Zero Banking Alliance (NZBA), un programma volontario nato per impegnare le banche a portare a zero le proprie “emissioni finanziate” entro il 2050. Tra i firmatari iniziali figurava anche la Royal Bank of Canada, a cui si sono successivamente aggiunti gli altri quattro grandi istituti canadesi. Inizialmente, le banche si erano impegnate a pubblicare piani dettagliati di riduzione delle emissioni entro 18 mesi e a rendere coerenti le loro politiche di prestito e investimento con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi.

Tuttavia, nel corso del 2024 e nei primi mesi del 2025, la situazione è cambiata: entro la fine di gennaio 2025, infatti, tutte le principali banche canadesi avevano abbandonato l’alleanza, affermando in particolare di sentirsi pronte a sviluppare strategie climatiche in modo autonomo, senza più dover ricorrere alle imposizioni dell’NZBA. La CIBC, in particolare, ha affermato di essere “ben posizionata per proseguire questo lavoro al di fuori della struttura formale dell’alleanza”. L’esodo – come è stato definito – è inoltre avvenuto proprio mentre numerose banche statunitensi (tra cui Goldman Sachs, JPMorgan e Bank of America) abbandonavano l’alleanza, in un clima di crescente opposizione alle iniziative ESG, in particolare da parte di ambienti conservatori statunitensi che le accusano di danneggiare la concorrenza.

Chi sono le “cinque banche”?

L’entità degli investimenti è importante. Secondo il rapporto Banking on Climate Chaos 2025, cinque grandi istituti canadesi – Royal Bank of Canada (RBC), Toronto-Dominion Bank (TD), Bank of Montreal (BMO), Bank of Nova Scotia (Scotiabank) e Canadian Imperial Bank of Commerce (CIBC) – hanno mobilitato complessivamente oltre 131 miliardi di dollari statunitensi a favore del settore fossile nel solo 2024.

Questo flusso di capitali verso il GNL pone una evidente contraddizione. Le stesse banche che si dichiarano impegnate nella transizione ecologica continuano infatti a finanziare alcune tra le infrastrutture volte allo sfruttamento di combustibili fossili più controverse del Paese. E, nel frattempo, le comunità indigene impattate da questi progetti si trovano, ancora una volta, escluse da decisioni che incidono direttamente sul loro territorio e sul loro futuro.

fonte: https://www.greenpeace.org/

Le cinque banche di cui parliamo ora costituiscono il cuore del sistema finanziario del Canada. Insieme controllano una quota estremamente rilevante del mercato bancario nazionale e tutte e cinque figurano stabilmente nella classifica delle 100 banche più grandi del mondo per asset totali.

RBC è la più grande banca del Canada per capitalizzazione, con una forte presenza anche negli Stati Uniti e in Europa. TD, seconda per dimensioni, ha una rete bancaria estesa nel Nord-Est degli Stati Uniti, in particolare negli stati della East Coast. Scotiabank si distingue per la sua proiezione internazionale in America Latina e nei Caraibi. BMO e CIBC, infine, mantengono un profilo più concentrato sul mercato nordamericano, ma con attività notevoli nel settore degli investimenti. Tutte e cinque sono società quotate alla Borsa di Toronto e rappresentano pilastri dell’economia canadese, sia in termini di occupazione sia di impatto sul credito pubblico e privato.

Per comprendere appieno il senso e la portata di questi investimenti, è ora necessario osservare più da vicino le infrastrutture principali che ne beneficiano.

I progetti infrastrutturali tra controversie e un pizzico di greenwashing

Il progetto Cedar LNG prevede la costruzione di un impianto di esportazione di gas naturale liquefatto galleggiante nella zona industriale di Kitimat, sulla costa settentrionale della Columbia Britannica. L’impianto sarà alimentato dal gasdotto Coastal GasLink e avrà una capacità prevista di esportazione pari a oltre tre milioni di tonnellate di GNL l’anno. È uno dei pochi progetti energetici in Canada promosso in partnership con una First Nation: la Haisla Nation detiene infatti il 50,1% della proprietà, insieme alla compagnia statunitense Pembina Pipeline. Il terminale sarà alimentato da energia idroelettrica, ma il gas che vi confluirà sarà estratto tramite la tecnica del fracking, un metodo che solleva da anni preoccupazioni per i suoi possibili effetti su falde acquifere, stabilità geologica e habitat naturali.

Il progetto Cedar LNG. Fonte: https://thenarwhal.ca/wp-content/uploads/2023/03/Cedar-LNG-terminal-illustration-2048×1153.png

Situato nei pressi di Squamish, a nord di Vancouver, Woodfibre LNG è un terminale di esportazione progettato per operare su piccola scala ma con obiettivi già ben definiti: servire i mercati asiatici, e in particolare la Cina, con gas liquefatto estratto nell’entroterra canadese. Il progetto è promosso dalla Pacific Energy Corporation, controllata dalla multinazionale singaporiana RGE Group, ed è stato più volte al centro di controversie per la sua localizzazione su un braccio di mare delicato e vicino a centri abitati. A differenza di Cedar LNG, Woodfibre non ha una partecipazione indigena diretta, anche se ha firmato accordi di collaborazione con la Squamish Nation.

Il gasdotto Coastal GasLink è, infine, l’infrastruttura chiave che rende possibili gli altri due progetti. Lunga 670 chilometri, la conduttura parte dalla zona di Dawson Creek, nella parte orientale della provincia, e termina a Kitimat, dove sorgerà Cedar LNG. La costruzione del gasdotto è stata accompagnata fin dall’inizio da forti opposizioni, in particolare da parte dei capi della Wet’suwet’en Nation. Le proteste hanno attirato l’attenzione nazionale e internazionale, trasformando il Coastal GasLink in un simbolo del conflitto tra sviluppo industriale e autodeterminazione indigena.

I promotori di questi progetti parlano di un equilibrio possibile tra crescita e transizione ecologica. Sostengono che l’esportazione di gas può ridurre l’uso del carbone nei mercati asiatici e contemporaneamente generare ricadute positive per l’economia canadese, sottolineando anche la presenza di accordi con gruppi indigeni come elemento di legittimazione. Ma la realtà è più complessa. Non tutte le comunità coinvolte hanno voce nei processi decisionali, e le forme di partecipazione offerte sembrano spesso limitate a mere compensazioni economiche o a protocolli firmati solo a seguito di scelte in realtà già compiute.

Anche sul piano finanziario, le scelte delle grandi banche canadesi non sembrano allineate agli impegni ambientali che dichiarano da anni. Gli investimenti nel fossile non stanno diminuendo, anzi si concentrano su infrastrutture che avranno effetti di lungo periodo. Il linguaggio della “sostenibilità” è sempre più presente nei comunicati, ma non si traduce in criteri realmente vincolanti per l’erogazione dei crediti.

È su questo scarto tra dichiarazioni e realtà e tra piani industriali e autodeterminazione indigena che si stanno giocando alcune tra le battaglie più complesse del presente canadese. Saranno proprio quelle legate in particolare al Coastal GasLink al centro della seconda parte di questo approfondimento.

Tommaso Bontempi

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Tommaso Bontempi

Dottore in Relazioni Internazionali Comparate, laureato presso l'Università Ca' Foscari di Venezia. Sono appassionato di tutto ciò che riguarda l’Europa orientale, dalla storia alla cultura alle lingue. La mia vita si svolge tra l’Italia e la Russia.

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