Niillas Beaska. Foto © Osservatorio Artico
Dal Repparfjord alla rappresentanza politica, la testimonianza di Niillas Beaska racconta molto sulle sfide quotidiane del popolo Sámi, l’ultima popolazione indigena d’Europa.
Negli ultimi anni, la narrazione internazionale presenta spesso la Norvegia come un modello di tutela dei diritti umani e di collaborazione con i popoli indigeni. Tuttavia, dietro questa immagine si nasconde un quadro più complesso: pressioni industriali crescenti, progetti invasivi legati alla transizione ecologica, tensioni sul territorio con le popolazioni locali. La partecipazione dei Sámi, ultimo popolo indigeno d’Europa, nei processi decisionali appare sempre più formale e meno sostanziale.
Ne abbiamo avuto una prova lo scorso ottobre, durante l’Arctic Circle Assembly di Reykjavík. Niillas Beaska, rappresentante del Sámi Parliamentary Council, è intervenuto durante la sessione plenaria per fare una domanda a Maria Varteressian, Sottosegretario di Stato norvegese, fautrice della nuova strategia per l’Alto Nord del Paese scandinavo: “Rispetterete i diritti dei Sámi?”.
La domanda, rivolta con un tono rispettoso ma deciso, faceva trasparire una certa frustrazione. La risposta della politica norvegese, puntuale e conciliante, avrebbe invece tranquillizzato chiunque: un profluvio di parole rassicuranti sull’importanza delle popolazioni indigene, un intervento da manuale per ogni politico progressista. Ma, rispetto ad anni in cui la parola d’ordine era “sostenibilità“, sul cui altare si stanno erigendo progetti estrattivi molto invasivi, come nel caso del Repparfjord, ora il centro di ogni discorso appare la sicurezza. Con ingenti stanziamenti in difesa annessi e connessi, specialmente nell’Alto Nord. Ma tranquilli: “L’intensificazione delle attività di difesa nella regione terrà debitamente conto della cultura Sami e delle industrie tradizionali Sami”, si legge.
Del resto, nel documento strategico i Sámi vengono anche largamente menzionati come una “parte inestimabile del patrimonio culturale norvegese” e la difesa dei loro diritti viene posta come una priorità del Governo. Ma sarà veramente così?
Dopo la sessione plenaria abbiamo fatto una chiacchierata con Niillas Beaska per fare il punto su cosa significhi oggi difendere i diritti indigeni in un Artico norvegese che sta cambiando velocemente. Nel clima, nella geopolitica e nelle sue priorità.
“Sì, è una buona descrizione della situazione” spiega Beaska. “L’hai citato tu stesso: Repparfjord. Io lavoro su quel caso da quattordici anni. E lo vediamo ripetersi, ancora e ancora. Per questo ho chiesto al governo: questa volta rispetterete davvero i diritti dei popoli indigeni? E ovviamente la risposta è sì – non potrebbero dire altro. Ma io devo aspettare per vedere se faranno davvero ciò che promettono. E ultimamente vediamo molte promesse vuote, molte promesse infrante”.
Beaska spiega che la recente enfasi sulla “difesa totale” nel Nord, spinta anche dalla guerra in Ucraina, ha creato una nuova narrazione implicita: quando la sicurezza nazionale è in gioco, i diritti indigeni diventano un intralcio di cui non parlare troppo.
“Negli ultimi anni si è instaurata una retorica che dice, tra le righe: la difesa è così importante che dovreste smettere di parlare dei vostri diritti. E tutto ciò avviene in un’area dove abbiamo Repparfjord, il caso Fosen, e molti altri progetti che mettono a repentaglio i nostri diritti. Abbiamo un caso già vinto in tribunale, e il Governo ha comunque ignorato la sentenza. È frustrante.”
“Forse la parola giusta è ipocrisia. E va avanti da molti anni. Negli anni ’80 la collaborazione era molto buona. Nel 1989 è stato istituito il Parlamento Sámi, e c’è stato un periodo positivo, costruttivo. Ma negli ultimi dieci anni il pendolo è tornato indietro: i nostri diritti non vengono più considerati come prima. Non è un buon segnale, perché il mondo guarda alla Norvegia per capire quali dovrebbero essere gli standard. Una volta eravamo i migliori della classe. Ora non più.”
E quando gli standard si abbassano in Norvegia, afferma Beaska, il resto del mondo trova un alibi: “Se la Norvegia non se ne preoccupa, perché dovremmo farlo noi?”
“Chiedo alla Norvegia di tornare sulla buona strada, di reintrodurre le buone pratiche che aveva un tempo. Non solo per gli indigeni, ma per i diritti umani in generale. Quando la Norvegia viola i diritti umani, apre la porta a chiunque nel mondo per fare lo stesso.”
Beaska sta quindi osservando con prudenza il nuovo governo: “Ci sono due nuovi segretari di Stato. Do loro il beneficio del dubbio. Ancora una volta, purtroppo. Ma è tutto ciò che possiamo fare: usare gli strumenti che abbiamo e lavorare con il sistema esistente.”
“Siamo rimasti all’unico strumento possibile: la disobbedienza civile” dice Beaska, senza giri di parole. “È un caso brutto, imbarazzante per la Norvegia. I ministri non parlano con noi. Non c’è dialogo significativo. E nel frattempo i lavori avanzano.”
Beaska racconta che il governo sostiene che il progetto sia pienamente legale. “Ma non è vero. Nel permesso del 2019 c’era l’obbligo di raggiungere un accordo con i Sámi titolari di diritti. Non è mai stato fatto. Stanno sfruttando ogni scappatoia, ogni trucco possibile. E quando i trucchi non funzionano, procedono comunque. Hanno già fatto brillare la montagna per centinaia di metri, senza consultazioni, senza alcun accordo.”
La somiglianza con il caso Fosen, dove nel 2021 la Corte Suprema ha stabilito che i diritti Sámi erano stati violati, è evidente: “Abbiamo vinto in Corte Suprema e la Norvegia ha ignorato la sentenza. Questo è il percorso su cui temo che il Paese si stia muovendo.”
“I giovani stanno pagando un prezzo altissimo. Sono nati dentro ai conflitti. E i conflitti aumentano: come ha detto uno dei nostri anziani, ai tempi della diga di Alta c’era un solo grande caso. Adesso ce ne sono cinquanta contemporaneamente. Non sappiamo nemmeno come affrontarli tutti.»
Il problema non è solo politico, ma culturale: “La politica dello Stato è “più, più veloce, più grande”. Ma come possiamo mantenere viva la nostra cultura se l’unica cosa che facciamo è combattere per difenderla? Non abbiamo più tempo per praticare la nostra cultura.”
Beaska racconta però anche della rete di movimenti che sta resistendo: Nature and Youth (Natur og Ungdom), Friends of the Earth Norway, il ramo giovanile Sámi – tutti insieme in una coalizione che tiene un campo permanente sul territorio di Repparfjord. Sono loro la prima linea del confronto con le ruspe e le esplosioni.
Una “nuova generazione di attivisti”, cresciuta non nella normalità, ma nell’emergenza continua.
Le parole di Niillas Beaska mostrano un Artico che raramente entra nel dibattito internazionale: non quello dei ghiacci che si sciolgono, ma quello dei diritti che evaporano. La sua testimonianza ricorda che la transizione ecologica, se condotta senza ascolto e senza regole, rischia di replicare le stesse dinamiche di sfruttamento che dice di voler superare.
La condizione dei Sámi, oggi, è quella di una comunità che continua a difendere il proprio spazio culturale e territoriale in un’Europa che cambia rapidamente. Le pressioni delle industrie estrattive, le nuove infrastrutture energetiche e il riscaldamento dell’Artico ridisegnano le terre che per secoli hanno garantito loro mobilità, pesca e pastorizia.
E l’identità stessa dei Sámi è diventata quella di un popolo oppresso, trincerato. E le parole del Governo norvegese, accomodanti e inclusive, nella pratica diventano una prevaricazione ipocrita e spesso anche violenta.
I Sámi continuano a parlare. Ma il problema, come spesso accade, è che pochi li ascoltano.
Enrico Peschiera
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