Pechino lavora per estendere la propria influenza nell’Artico e poter avere diretti benefici, nonostante incertezze economiche e climatiche.
Che la Repubblica Popolare Cinese sia in grado di proiettare il proprio soft power (ruǎn shílì – 软实力) anche alle latitudini più estreme è un fatto ormai noto. A voler ripercorrere le tappe fondamentali della recente “corsa verso l’Alto Nord” del governo di Pechino, si ricordi che nel 2013 la Cina ottenne lo status di osservatore permanente nel Consiglio Artico, insieme all’Italia e ad altri quattro Paesi asiatici, auto-dichiarandosi due anni più tardi “Stato quasi artico”, o “Stato vicino all’artico”, giustificato dalla prospettiva secondo cui la Cina è direttamente interessata dalle conseguenze dei cambiamenti geopolitici, economici e ambientali nell’Artico.
D’altronde la crisi climatica colpisce tutti i Paesi senza riguardo per i confini nazionali. Nello stesso anno 2015, la regione artica è stata inquadrata dal governo di Pechino come “Nuova Frontiera Strategica”, mentre nel 2018 la pubblicazione del primo Libro Bianco sulla Politica Artica Cinese rivela il passo successivo: l’Artico viene formalmente integrato nella Belt and Road Initiative (BRI), attraverso la creazione di una Via della Seta Polare.
Nonostante la pandemia di COVID-19 abbia interrotto gran parte della ricerca artica e ritardato progetti nel corso del 2020 e in buona parte del 2021, alcune spedizioni da parte di Stati non artici hanno comunque avuto luogo. Tra queste, la spedizione artica a bordo della nave rompighiaccio Xuelong 2 ha portato gli scienziati cinesi nell’alto mare artico per esaminare gli effetti del cambiamento climatico globale sull’ambiente artico e sulla sua biodiversità.
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Giulia Secci – Marco Volpe
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